Un rumore di catene, una luce fredda, una cabina di plexiglass come porta del regno di Polonia. Si presenta così La vie est un rêve di Galin Stoev, allestimento di un classico del teatro barocco spagnolo di Pedro Calderón de la Barca.
La vicenda ruota sull’illusione, su di una sorta di gioco di ruolo dei personaggi, al confine tra la menzogna e la verità. Un presagio investe improvvisamente la vita di Sigismondo, prigioniero in una torre, e lo immette in un limbo tra il reale e l’irreale, costringendolo a fare una scelta tra la vita e il sogno per costruire la propria individualità.
Si intreccia a questa storia quella di Rosaura, alle prese con l’estenuante ricerca delle proprie origini: tra travestimenti e inganni, riesce infine a ricongiungersi col padre Clotaldo, carceriere di Sigismondo. Ogni personaggio ha un ruolo ben preciso all’interno della narrazione e partecipa, in questo scambio ben architettato di pedine, alla risoluzione finale. La giocosa vitalità degli attori sulla scena risulta quasi eccessiva al confronto del testo calderoniano, nel quale alberga la complessa ricerca della felicità individuale, una felicità interiore da conquistare tanto nella finzione quanto nella realtà. I giovani interpreti si trovano così ad affrontare un dramma esistenziale, nel quale le continue trasformazioni confondono e suscitano dubbi, tanto da arrivare alla conclusione che la vita non sia altro che un sogno.
Una prova registica di rinnovamento della tradizione, svolta nell’ambito del progetto Prospero, nella quale però suona forzato il rapporto tra una scena concepita secondo canoni moderni e un testo, proposto nella versione integrale, che risponde ancora a convenzioni barocche.
Alice Moro