L’attesa: perenne, lunga, boriosa. Aspettare un qualcosa che cambi la tua vita, o semplicemente la giornata.
Toshiki Okada con We are the undamaged others ci trascina in un mondo che trascende il normale scorrere del tempo. Lunghe pause e silenzi dilatano la narrazione e si contrappongono al passare dei minuti evidenziato dall’orologio presente in scena. La storia di una coppia che aspetta a lungo di potersi trasferire nel nuovo appartamento, sognando un nuovo inizio, una nuova vita felice. Ed è proprio questo l’interrogativo che ci pone Okada: può l’attesa della felicità sostituire una reale vita felice? E se riuscissimo a raggiungerla, sarebbe vera o fittizia? Noi spettatori siamo chiamati in causa, rivediamo noi stessi in quello che stiamo osservando. Il regista giapponese ci propone una situazione di apparente stabilità che cela però una profonda insofferenza, mascherata e nascosta nel profondo del proprio io. I due coniugi hanno un’idea dell’amore completamente diversa: la moglie è felice e soddisfatta, il marito è infelice e insoddisfatto della loro relazione. Queste divergenze sopite non fanno altro che insabbiare il loro rapporto di coppia in una eterna infelicità.
I sette attori aggiungono man mano un nuovo tassello costitutivo alla vicenda, partecipando anch’essi in qualità di osservatori, solo a tratti impersonando i personaggi. I loro movimenti rafforzano e amplificano questo tempo dell’attesa, attraverso una ricerca sul gesto e sulla postura, che per quanto fissa non è mai immobile. Una coreografia gestuale quasi minimalista che arricchisce e connota visivamente la narrazione.
Alice Moro