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20/03/2018
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20/03/2018
Planetarium ai festival di teatro-ragazzi


19/03/2018
Teatro e giovani generazioni: un incontro-dibattito a Castelfiorentino


10/11/2017
Performing Gender: gran finale a Bologna


08/11/2017
Master in Imprenditoria dello spettacolo 17-18, Università di Bologna


07/11/2017
Con occhi nudi: un itinerario al femminile


05/11/2017
Lettera 22. Premio giornalistico nazionale di critica teatrale under 36


04/09/2017
Cornice Aperta. Aperitivo con gli artisti del Festival Danza Urbana


19/05/2017
Maggio all'infanzia, dal 17 al 21 maggio a Bari


04/05/2017
Ivrea Cinquanta – Mezzo secolo di Nuovo Teatro in Italia 1967 – 2017. Genova, 5-7 maggio


29/03/2017
Un teatro in mezzo ai campi: 8 aprile con le Ariette


24/03/2017
''La formazione del nuovo pubblico'': un convegno sabato 25 marzo ad Albenga


28/02/2017
“Comizi d’amore”, open call per registi/drammaturghi e attori under 35 di Kepler-452


11/01/2017
La cultura nell'economia italiana: il 13 gennaio un convegno a Bologna


05/12/2016
Impertinente Festival: il teatro di figura a Parma, dal 7 all'11 dicembre


07/10/2016
Master in imprenditoria dello spettacolo, Bologna, anno accademico 2016-2017


23/09/2016
Infanzia e città a Pistoia, dal 24 settembre al 5 novembre 2016


03/09/2016
Dalla Cultura alla Scuola: ''Cosa abbiamo in Comune'', il 7 settembre a Bologna


31/08/2016
Electro Camp – International Platform for New Sounds and Dance, a Forte Marghera dal 7 all'11 settembre


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INTERVISTE > Scolpire il vuoto. Nacera Belaza

Nacera Belaza è una coreografa franco-algerina autodidatta. A Vie Scena Contemporanea già nel 2008 con Le cri, torna nel 2011 con Les sentinelles, lavoro sull’attesa e sull’incommensurabilità delle distanze temporali. In scena con la sorella Dalila, Nacera impiega cinquanta minuti per attraversare dal fondo al proscenio un palco lungo nove metri, mentre la moltiplicazione del ritmo sonoro agita la corsa interiore delle due figure. Un’autentica traversata interiore che accoglie lo spettatore in una dimensione speciale, dentro la quale lo spazio del teatro diventa tutt’uno con i corpi che lo abitano. Nacera Belaza racconta qui la direzione della sua ricerca e la concezione di spazio-temporale che è alla base del suo lavoro.


In che senso Les sentinelles è un lavoro sull’attesa, e come può vivere sulla scena la dimensione sospesa in cui si muove chi attende?

Volevo che questo lavoro fosse una sorta di viaggio interiore. Sulla scena si è costretti tra dieci metri per dieci: è molto difficile per il teatro o la danza – a meno che non si utilizzino dei mezzi artificiali – procurare allo spettatore una sensazione simile. Perché si verifichi questo viaggio occorre far sì che tutto accada all’interno di noi, occorre che i dieci metri si trasformino in un deserto, una traversata che duri all’infinito. Quando io e Dalila avanziamo sulla scena lo facciamo con la consapevolezza di “esserci”, presenti, mentre “qualcosa” ci spinge dall’interno, ci spinge ad andare molto veloce e molto lontano, come una desiderio disperato di vivere. Queste due spinte opposte fanno sì che il nostro avanzare abbia quel ritmo. Noi siamo lì, mentre “questa cosa” ci tira in avanti. Non è il corpo che avanza: è fatto avanzare. Allo stesso tempo noi siamo estremamente aperte a tutto quello che può accadere durante la traversata. Ad esempio, un movimento della testa che va in un’altra direzione, un movimento rapido. Siamo disponibili ad accoglierlo. Bisogna stare in guardia, in attesa di. 
A un certo punto del lavoro mi sono ricordata del Deserto dei Tartari di Dino Buzzati, una lettura che mi aveva segnato molti anni fa. Lungo tutta la storia si attende che arrivi il nemico: il romanzo è questa attesa, c’è un’apertura a tutto il possibile che costituisce il romanzo stesso. Allo stesso modo il pubblico arriva in sala per Les sentinelles con l’intenzione di vedere uno spettacolo che sta per cominciare, ma in realtà anche noi che siamo in scena attendiamo con lo spettatore che qualcosa cominci. Ma cosa? Non c’è risposta a questa domanda: lo spettacolo è un dialogo con l’attesa del pubblico. 

Parlando del tuo lavoro usi l’espressione «scolpire il vuoto», come se lo spazio fosse materia palpabile da plasmare. In questo caso l’attraversamento della scena è un modo di dare una forma al tempo, alla sostanza di cui si compone.

Sì. Ieri pomeriggio dicevo a Dalila: pensa, si fanno molte cose durante la giornata e tre quarti d’ora non sono nulla, si beve una cosa, si fanno due chiacchiere. Questi tre quarti d’ora, invece, sul palcoscenico, possono trasformarsi in un’attesa infinita. Tutto dipende da come si vive il tempo, da come lo si riempie e da quale rapporto instauriamo con la durata. È molto affascinante come un’ora possa essere nulla, oppure qualcosa di interminabile. Il tempo non è misurabile, si tratta piuttosto di un’atemporalità.

Come collaborano la luce e il suono alla creazione di questa dimensione?

Quello della musica è il ritmo interiore della corsa: «I’m going back, I’m going back», ripete la voce di Nina Simone. È il ritmo di ciò che ci fa andare veloce nella vita, che dialoga con la maniera che abbiamo di stare in scena. Quando ho avviato questo lavoro ho visualizzato le tre drammaturgie, le tre trame suono-luce -corpo. C’è un unità di luogo e una di tempo: dal fondo al proscenio, dal giorno alla notte. La luce passa infatti dal giorno pieno alla notte, ma non segue i corpi, si affievolisce indipendentemente da noi. Il suono parte dall’infinitamente piccolo fino ad arrivare alla moltiplicazione, una specie di cacofonia molto forte. Il suono e la luce sono in funzione di ciò che accade in scena. Creano una tensione in due direzioni opposte, e permettono questa traversata orizzontale del corpo. 

Il lavoro si rivolge alla percezione del pubblico. Lo spettatore diventa “sentinella” di se stesso, dei propri sensi, che si affinano mano a mano che lo spettacolo va avanti.

Il pubblico all’inizio resta in attesa, poi a un certo punto comincia a infastidirsi. Dopo questo primo momento, se si mette in ascolto, accade che i nostri corpi (di noi in scena e degli spettatori in sala) diventino un corpo solo, teso in ascolto di ciò che sta per accadere. Ciò che conta è solo l’attesa. Effettivamente il nostro stato diventa lo stato dello spettatore. È una forma di manipolazione, ma nel senso nobile del termine: è una manipolazione della percezione dell’altro perché questa si espanda, si apra.

All’inizio il vostro movimento è impercettibile, c’è uno scarto tra la percezione della vostra immobilità e il fatto che indubbiamente state avanzando verso il proscenio. Lentamente si entra in questa dimensione per cui anche i movimenti più piccoli diventano visibili.

Quello che mi interessa non è portare lo spettatore a vedere ogni volta qualcosa di differente, ma a vedere ogni volta meglio. Nello spettacolo avviene un cambio di frequenza: il pubblico arriva a una frequenza per cui vuole vedere qualcosa, poi all’improvviso questa frequenza si trasforma e lo spettatore si trova ad assistere a qualcosa di molto più intimo, trattenuto, fragile. Sono dimensioni d’ascolto che non conosciamo nella vita quotidiana. Il mio scopo è anche questo: far vedere, far sentire delle cose che non vediamo più, per cui non abbiamo più tempo. La letteratura è stata per me la stessa cosa, un risveglio per il mio sguardo. Mi ha permesso di guardare le cose in modo nuovo: qualcuno, scrivendo, mi ha insegnato a percepire diversamente, in una lettura ogni volta più complessa rispetto alla realtà. Credo che questa sia una delle funzioni principali dell’arte.

Che tipo di lavoro deve fare il corpo per arrivare a questo livello di apertura?

Per creare un’opera impiego circa un anno. All’inizio ci sono delle idee molto chiare, ma c’è bisogno di un anno per assorbire, per incarnare veramente la visione iniziale. C’è qualcosa che nasce nella testa e ha bisogno di tempo per scendere nel corpo. È una visione condivisibile, non solo tra danzatori, ma anche con lo spettatore. Quando il pubblico va incontro a un’opera la riconosce, la vede “di nuovo”, non è mai qualcosa di totalmente estraneo per lui. Con alcune opere si ha l’impressione che queste esistessero già in noi e di rincontrarle poi all’esterno. È un lavoro sulla visione e sulla maniera con cui ci si appropria della visione. Potrei essere fraintesa, ma il corpo per me non esiste, nel senso che può diventare tutto quello che posso immaginare. 
In Les sentinelles noi procediamo al di là della velocità, ed è un movimento che non ha il tempo di esistere, che non ha nessun tempo. Il nostro modo di lavorare è più simile a quello degli attori: si cerca un modo di portare in scena certe immagini o certe nozioni, interpretandole e non traducendole fisicamente. Io non sopporto la lentezza e l’immobilità nella danza contemporanea. Quello che noi facciamo in scena non è muoverci con lentezza: semplicemente “ci siamo”, in modo aperto, cercando di diventare uno spazio di proiezione per lo spettatore. Les sentinelles riguarda cosa vuol dire “esserci”, accettando assolutamente di “essere lì”. Il lavoro fisico è per me è secondario. Dico spesso che non ho l’impressione di fare coreografia, perché non lavoro come un coreografo sul corpo del danzatore. Il corpo è per me come per il cinema uno schermo bianco, come per la letteratura una pagina bianca dentro la quale proiettare tutto ciò che è possibile immaginare. Tutte le possibilità possono essere accolte nel corpo se non ci si ferma all’idea di danzatore. Un danzatore cammina lentamente, e invece io dico: non esiste la camminata, non si cammina. Infatti in questo lavoro si ha spesso l’impressione che le figure retrocedano, invece di avanzare.

Il corpo è dunque una proiezione, una traccia nello spazio.

Il mio lavoro sul corpo consiste nella sua distensione: utilizzo poco i muscoli, anche nel movimento. Quando il corpo è in questo stato, si depone davvero nello spazio, si lascia attraversare dalla velocità e lascia delle tracce. Quando un corpo di danzatore è tenuto, se fa un movimento non lascia alcuna traccia nello spazio. Un movimento, anche se molto rapido, se è fatto da un corpo completamente disteso, si imprime e lascia delle tracce fortissime. Dico sempre che non creo per l’occhio, ma per la memoria. Tutti i miei lavori cercano di inscrivere qualcosa che resti nella memoria. Per ottenere questo occorre trovare una materia del corpo, un rapporto col tempo e un rapporto con lo spazio. Occorre aprire lo spazio per poterlo metamorfizzare. Non mi importa che allo spettatore piaccia o no il lavoro, ma che in qualche modo lo porti con se quando se ne va. L’arte per me è anche questo: mi ricordo di romanzi o di film molto difficili e pesanti, che però hanno lasciato in me delle tracce. La questione fondamentale su cui interrogarsi è: quest’opera lascia delle tracce nella mia vita? E perché? È importante che per lo spettatore sia chiaro che non è lì per passare un bel momento. Nell’esperienza della nostra vita non sono per forza i bei momenti che ci segnano, la questione è molto più complessa. La maniera con cui lavoro il corpo, lo riempio di silenzi, lo apro allo spazio, è per mettere lo spettatore non nella condizione di vederlo, ma di fare parte di qualcosa di più globale, che certamente comporta quel corpo, ma va molto oltre.

Nello studio che hai presentato a Vie a chiusura di Les sentinelles è infatti molto chiara la fluidità che unisce il tuo corpo allo spazio circostante.

È uno studio che ha ancora un nome, lo spettacolo sarà presentato al Festival di Avignone nel 2012. 
Con Dalila abbiamo sempre lavorato sul concetto di “cancellazione” del corpo per aprirlo all’esterno. È la nostra materia corporea che porta con sé questa fluidità: ci si lega a tutto ciò che ci sta intorno cominciando dal cancellarsi. Non potrei sentirmi materialmente fisica in scena, non potrei essere in altro modo.

di Alessandra Cava
 

COMPAGNIE
   

FESTIVAL

marzo-maggio 2018
Planetarium
Osservatorio sul teatro ragazzi

14 - 22 ottobre 2017
Vie Festival 2017
Laboratorio di critica e giornalismo

giugno 2017
Futuri Maestri
Laboratorio Futuri giornalisti

28-31 ottobre 2016
Crisalide
Perché passi un po' di caos libero e ventoso

ottobre 2016
Vie Festival 2016
Arti sceniche internazionali e italiane

22 settembre - 2 ottobre 2016
Contemporanea Festival 2016
Le arti della scena

ottobre 2015
Vie Festival 2015
Arti sceniche internazionali e italiane

1-4 ottobre 2015
Crisalide
Non è successo niente, è ciò che stiamo diventando

25 settembre - 4 ottobre 2015
Contemporanea Festival 2015
Le arti della scena

Febbraio - aprile 2015
Nelle pieghe del Corpo
Virgilio Sieni, Bologna

ottobre 2014 - marzo 2015
Festival Focus Jelinek
Festival per città

9-25 ottobre 2014
Vie Festival 2014 Modena___Emilia
Arti sceniche internazionali

10 - 20 luglio 2014
Santarcangelo · 14
Festival internazionale del teatro in piazza

12 - 21 luglio 2013
Santarcangelo · 13
Festival Internazionale del Teatro in Piazza

aprile 2013
Pinocchio della non-scuola
Immagini a cura di Osservatorio Fotografico, note a margine su Pinocchio

5-13 ottobre 2012
Tempo Reale Festival
Ricerche musicali contemporanee

14 - 23 luglio 2012
SANTARCANGELO •12
Festival internazionale del teatro in piazza

Primavera 2012
Vie Scena Contemporanea Festival
Arti sceniche internazionali

Marzo 2012
BilBolbul 2012
fumetto, illustrazione, disegno

ottobre 2011
Vie Scena Contemporanea Festival
Teatro internazionale a Modena, Carpi, Vignola e limitrofi

Settembre 2011
Arca Puccini - Musica per combinazione
Rock indipendente italiano e internazionale