Durante l'ultimo giorno di Festival, prima della sua partenza alla volta della Germania, riusciamo ad incontrare Toshiki Okada al Teatro delle Passioni. Ormai alla sua terza presenza consecutiva a Vie Scena Contemporanea Festival, l'autore giapponese (a Modena nel 2009 con Hot Pepper, Air Conditioner, and the Farewell Speech e l'anno scorso con We Are the Undamaged Others) ha presentato quest'anno The Sonic Life of a Giant Tortoise che, pur nella continuità con i lavori precedenti, segna un'ulteriore tappa nel suo percorso artistico.
Vorremmo iniziare da un'introduzione che possa descrivere il tuo lavoro: dalla scrittura al rapporto con gli attori, dalla costruzione della scena alla riflessione sulla percezione degli spettatori.
Per me è molto difficile parlare del processo che caratterizza il mio lavoro, quindi cercherò di descriverlo attraverso alcuni esempi, magari anche rispondendo alle domande successive. Quello che mi interessa, mettendomi al lavoro su uno spettacolo, non è la rappresentazione di qualcosa sul palco; piuttosto cerco di creare le condizioni affinché gli spettatori possano arrivare a concepire l'idea, a immaginare lo stato mentale a cui mi riferisco. A questo scopo non è essenziale che la performance sul palco appaia come qualcosa di completo: la forma non deve essere chiusa, ma deve mantenere quelle caratteristiche che permettono al pubblico di completarla nella propria mente. We Are the Undamaged Others è stato il mio primo tentativo di non concludere il teatro sul palco, di non considerare la performance come a sé stante, ma di immaginarla come qualcosa che dovesse lavorare con la percezione dello spettatore. Pur amandolo ancora molto, penso però di aver domandato troppo al pubblico con questo spettacolo. Invece con The Sonic Life of a Giant Tortoise, che è una sorta di applicazione più matura di questo pensiero, ho cercato di essere meno esigente: ho provato a semplificarne la visione mantenendo, o dove possibile accentuando, la forza che aveva sul pubblico.
Gli attori sembrano essere spinti dal desiderio, si spostano da una parte all’altra della scena come a tracciare le linee dei loro sogni, che non si avverano mai. Nella presentazione dello spettacolo hai descritto come questi desideri appartengano a una parte della società giapponese, se non di molte società in tutto il mondo. Come lavori con gli attori affinché essi riescano ad abitarli?
Io chiedo agli attori di essere presenti sul palco con tutte le loro particolarità: penso sia fantastico che ciascuno di loro mantenga sulla scena il proprio singolare modo di essere, la propria peculiare forma. Non mi interessa che tengano il personaggio nella sequenza, mi basta che si muovano al suo interno senza recitare, mi basta che siano lì. I loro movimenti non sono mai creati seguendo mie istruzioni, la maggior parte nascono dagli attori stessi, dalle loro idee.
Quando scrivo un testo non ho idea di come questo sarà usato nella performance. Non offro nessun canale preferenziale, non li indirizzo, così che quello che gli attori riescono a fare non è mai corretto o sbagliato. Gli attori mi restituiscono ciò che dico e, guardandoli, posso cercare di vedere nelle loro menti, o meglio nella mia mente, per capire quanto la performance mi può dar da pensare, da immaginare. Non occorre dire molto, basta poco, in modo da poter analizzare quello che accade sul palco: questa è la mia regia, la direzione che imprimo. Dopo aver lavorato a lungo con me alcuni attori possono mettere velocemente in pratica i miei suggerimenti, ma questo non significa che le mie indicazioni siano strette o precise: ciò che dico non è mai concreto, è sempre molto astratto, in modo che chi sta in scena possa sentire, capire e migliorare. Così io e gli attori arriviamo a condividere il senso della rappresentazione e a capire cosa è buono e cosa è sbagliato: è una condivisione graduale. Io non ho un pensiero preciso, una struttura o criteri rigidi: io concepisco la performance, poi con gli attori accade che progettiamo un'immagine che ho nella mente che ci faccia dire che lo spettacolo funziona. È l'unico “metodo” che abbiamo.
Riguardo questo tipo di condivisione, quando comincia, qual è il punto di partenza?
Io dico loro l'idea, l'operazione da sperimentare che ho in mente. In Sonic Life of a Giant Tortoise volevo partire dalla pittura combinata di Robert Rauschemberg. Sono stato ispirato da lui per l'uso di materiali diversi che utilizza nella creazione dell'opera. Mi interessava molto provare a pensare come il mio teatro potesse fare una cosa simile. Molti critici hanno paragonato il mio lavoro a un opera cubista e posso capire cosa intendono. Il cubismo mostra punti di vista plurali, diversi, ma messi sulla stessa superficie, costruiti con lo stesso materiale. Io ho cercato di operare un passo avanti, passare al livello successivo, usando materiali differenti. Questo è stato il punto di partenza: un concetto, un'idea che ho condiviso con loro. Io spiego i pensieri, gli obiettivi che ho in mente ripetendoli attraverso esempi e metafore differenti e per prima cosa loro ascoltano, cercano di capire finché non afferrano ciò che intendo, ognuno a suo modo. Per questo motivo, già a partire dai primi esperimenti è essenziale che gli attori si presentino in tutte le loro differenze: uno può rappresentare un personaggio, un altro può ascoltare la musica e muoversi, un altro fa il possibile per stabilire una relazione con gli spettatori, un altro cerca di non avere niente a che fare con nessuno.
In questo spettacolo lo spettatore viene messo nella condizione di “toccare” il tempo in più punti: come nella parola “sonic”, presente nel titolo, che del suono indica la velocità, la vibrazione, la sua vita ritmica. La concezione del tempo nel tuo lavoro in generale sembra strettamente legata al concetto giapponese di “mā”, che è la sostanza non misurabile del tempo, associabile a quello che Duchamp chiamava inframince, l’intervallo impercettibile. C’è qualcosa di tutto questo nell’elaborazione della scena e nella gestione del ritmo dei dialoghi?
Certamente io dico spesso agli attori di lavorare col tempo, perché penso che il teatro possa perfettamente controllare il senso della durata: lo può estendere o schiacciare a piacimento, facendo del tempo davvero quello che vuole. Quando chiedo agli attori di prendere un tempo non uso la parola "mā", perché in Giappone ha perso la sua portata concettuale: la usiamo così spesso che il pensiero che portava con sé sembra essere scomparso; così devo cercare di descriverlo in modi diversi. Dico di immaginare il lancio di una piccola pietra in uno stagno, o il cadere di una goccia nell'acqua; la performance può essere paragonata alle piccole onde circolari che increspano la superficie create da questa caduta. Mi interessa che vedano, che vivano questo tipo di evento, che risuonino. Facendo rintoccare la campana si sprigiona una eco, ma basta sfiorarne la superficie perché il suono immediatamente si fermi: questo è quello che l'attore deve evitare. La cosa essenziale, prioritaria, è riuscire a offrire al pubblico tale tipo di risonanza: la performance è solo una condizione. Questo io intendo per “mā”: dare al pubblico il tempo di riflettere o di esperire il respiro che il tempo porta con sé.
In questo caso il termine “sonic” mi permetteva anche di lavorare sul concetto di galapagosization: mettendo in contrasto la velocità che la parola porta con sé con la lentezza della tartaruga, già nel titolo potevo iniziare a concentrare questo aspetto della società giapponese, gli aspetti positivi e negativi della chiusura che caratterizza il mio paese. Come le Galápagos hanno un ecosistema molto chiuso, così il Giappone sviluppa tecnologie e standards tecnici accettati solo nella propria area di mercato, intralciando la diffusione globale: questo ci ha consentito di mantenere l'intimità, la singolarità delle nostre culture, ma sicuramente ha delle conseguenze non solo positive.
Quest'estate a Santarcangelo 41 abbiamo avuto modo di vedere due lavori di Oriza Hirata: Tokio Notes e The Yalta Conference. Ci hanno colpito le somiglianze tra i vostri spettacoli pur tanto diversi e abbiamo pensato a come alcuni aggettivi possano descrivere entrambi i vostri lavori, nonostante le differenze.
Hirata ha circa dieci anni più di me e io sono stato molto influenzato dai suoi spettacoli, dalla lingua molto colloquiale che usa. La prima volta che l'ho visto sono rimasto davvero colpito dal suo linguaggio estremamente promettente, tanto che ho cercato io stesso di lavorare col teatro colloquiale. Ma il mio teatro è molto diverso dal suo, anche se l'idea è la stessa. Lui lavora molto col realismo, cercando di avere un effetto naturalistico; io voglio invece cercare una via d'uscita da ogni tipo di realismo: voglio che il mio teatro sia aperto. Considerare il teatro come qualcosa che si completi nella mente dello spettatore segna appunto questa lontananza, perché la rappresentazione realistica è chiusa, già completa sul palco.