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RECENSIONI > Dentro a una luce d'acquario. The Sonic Life of a Giant Tortoise di Toshiki Okada

Nel chiarore soffuso del palco si trascinano figure instabili svuotate di energia, particelle dal movimento irrisolto, isolate: The Sonic Life of a Giant Tortoise, l'ultimo affondo di Toshiki Okada  sulla condizione umana presentato a Vie Scena Contemporanea Festival 2011, mette in scena un sogno iperreale che fa risuonare l'insoddisfazione di fondo propria dell'esistenza. I personaggi sono stretti nella loro vita quotidiana fino a soffocare senza niente che possa giustificare il peso di quell'infelicità. 
Coppie di Tokio che parlano tra loro quasi senza guardarsi: viaggiatori spenti sui binari veloci della metropolitana riempiono il tempo annuendo a discorsi sulla vivacità della metropoli, sulla bellezza del viaggio, a cui nessuno crede davvero. Non manca l’amore, ma ci si scopre a confessare che sarebbe meglio vivere in quello eterno e malinconico del lutto, causato dalla morte del compagno. Tutto va avanti attraverso piccole speranze o aspettative che possano rompere la stasi. Ma i desideri guidati dall’immaginario sociale non viaggiano oltre il luogo comune e il moto resta negato. Il corpo è lo specchio di questa condizione: perimetri leggeri, costruiti della consistenza della luce, racchiudono i percorsi casuali di arti spostati per inerzia; il disequilibrio è scaricato di tutta la tensione che porta con sé, lo slancio perde la direzione e ricade su se stesso.
L'abilità del regista giapponese sta nell'impedire che tutte queste sensazioni restino confinate sul palco: come nei precedenti lavori, il ritmo dello spettacolo è dilatato da lunghi silenzi, da frasi accennate e mai pronunciate, i vuoti si riempiono dell'aspettativa frustrata dell'osservatore. Le ampie pause lasciano andare i pensieri di chi osserva, ma la concentrazione è subito richiamata da battute lapidarie di frasi spezzate in mille punti, così che la dimensione onirica dello spettacolo, che si compone di identità invertite, di “io” narranti riflessi su differenti narratori, diventa palpabile nell’attenzione fluttuante dello spettatore. La separazione dalla vita, l’insofferenza passa attraverso misurati meccanismi scenici, finché lo sguardo non si allontana ancora di più, non si distacca dal teatro stesso. È il gesto finale di Okada, mostrare lo spazio, il qui e ora, la finzione e la profonda verità di tutto questo sognare: il vetro incrinato della quarta parete cade in frantumi, la luce da acquario inonda gli spettatori che si scoprono a fluttuare come in scena, inebetiti, con la bocca socchiusa e gli occhi spenti.

di Matteo Vallorani


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