Per parlare di Amleto non solo è necessario conoscere Shakespeare o leggere la tragedia, ma occorre anche sapersi destreggiare all’interno di molteplici letture e nell’immaginario che nel tempo si è sedimentato e ha contribuito a costruire un’impenetrabile corazza che riveste e protegge i classici. Il problema è noto e risiede nella storicizzazione, nella necessità di rendere contemporanea la narrazione di un’opera e di definire delle concordanze tra il soggetto proposto e le aspettative di un pubblico. Accennando questioni che meriterebbero un maggiore approfondimento, è almeno necessario domandarsi quanto sia possibile delineare i contorni di un personaggio, dal momento che il pubblico lo ha già visto attraverso un caleidoscopio di possibilità; chiedersi contro quali spettri si debba combattere, affinché la sua dimensione si manifesti sotto una luce che prende le distanze da ciò che lo ha preceduto. Al tempo stesso, è fondamentale capire come porsi, attraverso uno studio, nei confronti della ricerca, ma anche scavare in quell’esiguo spazio di non-detto che il pubblico non ha ancora sentito.
Questa potrebbe essere una minima parte degli interrogativi a cui Danio Manfredini ha cercato di rispondere, in un progetto che instaura e muove degli effetti di senso in grado di ripristinare una dimensione articolata, che non trascura l’algoritmo di rappresentazioni precedenti. L'attore e regista, per raggiungere un simile scopo ha ridotto al minimo, tagliando tutto il superfluo, applicando una sorta di sintesi figurativa e dimensionale. Gli attori, nella prima parte del lavoro, si muovono come delle marionette, attraversano il palco seguendo dei binari lineari e assumono una posizione con le spalle e il busto collocati frontalmente, il bacino di tre quarti, le gambe di profilo, il viso di fronte; una prossemica siffatta può evocare le convenzioni espressive dell’antico Egitto, al fine di offrire un reticolo di punti di vista tramite la composizione di sguardi multipli. Il rapporto tra evidenza grafica e potenziali percorsi di lettura sorprende, perché il risultato offre allo spettatore l’immagine di un attore bidimensionale disposto a saldare ogni debito col passato, svuotandosi del volume pur di garantire la capacità di assorbire il nuovo: attori a due dimensioni diventano metafora della pagina, compiono movimenti sistematici come stretti in un vetrino porta-oggetti di una sostanza narrativa da osservare al microscopio.
Quando in sala si propaga l’oscurità non è semplicemente un effetto scenico, perché coincide col momento in cui si manifesta ad Amleto lo spirito del padre. I due attori che interpretano la sequenza riacquistano volume, possono muoversi liberamente perché abitano uno spazio crepuscolare, sulla soglia del sogno e dell’irrealtà. Così la dimensione tolta in precedenza viene riscattata sotto forma di un espediente funzionale alla rappresentazione, ottenendo un sospensione dell'incredulità inversa: la terza dimensione, che riporta alla realtà, si impiega come simbolo dell’alterità. La corsa di Amleto che segue la visita del fantasma sembra confermare, almeno in parte, tale prospettiva: il giovane corre sul posto, prima di profilo e poi frontalmente, attraverso una pioggia di coriandoli che dona una percezione dinamica del movimento.
Manfredini costringe il volto degli attori all’interno di maschere bianche che sclerotizzano i dialoghi, fratturando le aspettative dei versi noti e sottolineando il ruolo dei corpi, del movimento e dello spazio che occupano: un insieme di scelte che priva il canone della propria qualifica.
Questo studio della tragedia sheakespeariana, che sicuramente nel progredire sarà soggetto a modifiche che renderanno ancora più acuminata la sua punta, assorbe lo sguardo per la lettura così analitica del suo regista che, senza compromessi, con la vivacità e la poesia di un romantico artigiano, ci regala di nuovo un nuovo Amleto.