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RECENSIONI > The breathing us di Francesca Proia

Lo spazio è ridisegnato e il pubblico affonda tra le dune di un deserto di cuscini, si stende, si rialza, si rilassa e si stira. The breathing us di Francesca Proia organizza una fruizione altra, la dilata nello spazio e nel tempo, la distrae per assottigliare la visione, aprirla a un respiro comune. Al centro una coppia: lei e lui (Danilo Conti, compagno d’arte e di vita) si muovono lentamente, inspirano e costruiscono insieme figure della meditazione, espirano, cercando un contatto. Al centro si tendono l’uno all’altra, a un linguaggio intimo costruito del loro sentire, percepire, a una lingua indicibile, che risponda all’unità invisibile.
Alta e vestita di nero, una sagoma femminile decapitata si erge al centro del palco, dietro di lei un uomo avvolto dallo stesso colore la segue con cura, la accompagna nelle sue metamorfosi. Il lungo abito ieratico vola via scoprendo la figura fragile che nascondeva. La donna si scioglie lentamente, disintreccia gli arti, si libera dei tessuti che la coprono, incontra lui. I due corpi si trovano, si muovono insieme, naturalmente in concerto, di una sincronia non ricercata nella perfezione esteriore, ma in un comune sentire. Stanno uno di fronte all’altra, aperti, si assistono, cullano, costruiscono, abbandonati in quel loro essere uno in due.
È forse irrappresentabile l’oggetto, tanto fragile da non poter essere esposto, tanto personale da poter cadere in frantumi di fronte alla semplice presenza di un altro: quando l’unione si realizza i corpi chiudono una cupola su di loro, solo un fiato bianco lascia fuoriuscire la loro presenza. Così la Proia tenta di spezzare l’incatenamento dello sguardo teatrale, invita a una visione “fluttuante”: gli occhi, investiti di quei movimenti leggeri, di quelle immobilità animate, sono liberi di distogliersi, chiudersi, appannarsi; i corpi stesi sul morbido tappeto possono affondare, alzarsi, rifocillarsi.
Vero è che le immagini create sul palco affondano le loro radici in una pratica di tipo yogico e suscitano la voglia di penetrare di più quelle posizioni, la loro origine, gli effetti, ma l’opera sembra tentare l’opposto muovendosi sul confine della possibilità di comunicazione. Chi assiste non può essere inserito nell’intimo intrecciarsi, ma può tentare di vivere, in quella compresenza, il loro respiro: a spettacolo finito lo spettatore resta solo su quel deserto, come lo è stato per tutto lo spettacolo, ma qualcosa gli è stato sottratto, resta seduto a desiderare quel soffio inafferrabile che, eppure, è stato un sentire.


di Matteo Vallorani


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