A parlare sono le immagini. Lo spettatore guidato da tale assunto avrà forse attraversato la Divina Commedia di Eimuntas Nekrosius con più agio. Il teatro del lituano è un mondo linguistico codificato e ha forgiato visioni che sono divenute locuzioni (una scena “alla” Nekrosius). Le sue immagini sgorgano da una superficie visibile apparentemente ordinaria, puntellata da alcuni oggetti ora di uso comune, ora progettati per conferire al racconto quella carica metaforica che Nekrosius padroneggia come pochi. La Divina Commedia, che ha debuttato a Brindisi per poi trasferirsi a Vie, si svolge su un palcoscenico occupato da pochi oggetti: una sfera grigia alta qualche metro, un separé che diventa specchio, un pianoforte. S'inizia dall'Inferno, da figure che emergono imprimendosi in un orizzonte privo di luce. Ma se il teatro di Nekrosius è fatto per gli occhi, quando a essere recitata è l'opera madre di tutte le creazioni letterarie è forte la tentazione di aggrapparsi al testo, per comprendere la lettura del regista.
Tutto si dispiega nei momenti iniziali dell'opera: all'aprirsi del sipario ci attendono note musicali al piano, che insieme ai violini di Bach accompagnano fra onirismi e fughe le peregrinazioni del Poeta. Alcune sagome di cartoncino bianco abitano l'intero palco, silhouette del volto dell'amata Beatrice, quasi una pliniana Origine della pittura che nella visione di Nekrosius diviene sprone per ricercare l'amore. Verranno poi gli incontri con i concittadini, le riflessioni sulla Firenze infestata dalla corruzione. L'arte, l'amore, Firenze sembrano essere i fili che conducono la messa in scena, raccontando taluni passaggi celeberrimi (per esempio Paolo e Francesca), omettendone altri (fra i tanti, Il Conte Ugolino). Ma isolare delle zone di senso per decifrare la lettura registica può rivelarsi fuorviante, meglio procedere descrivendo.
Dante è in blusa rossa, Virgilio lo accompagna recitando come un imbonitore e informando noi e il Poeta sull'identità delle anime. Le fiere, i dannati che sbattono nella porta dell'Inferno, Caronte, i suicidi: di fronte i due viaggiatori, dietro schiere di attori che illustrano le parole dantesche, ora illuminandole, ora perdendo in partenza la competizione con una visionarietà difficilmente riproducibile, soprattutto se si tratta di restituire la temperatura dei tormenti delle anime. Nel limbo, i patriarchi s'aggirano nello spazio quasi danzando, ognuno regge un pezzetto di legno: una volta uniti, in schiera, i pezzetti compongono una grande croce. Paolo e Francesca sono seduti e reggono sulle ginocchia un tomo a testa: rapiti dalla lettura di Lancillotto e Ginevra, sembrano non poter staccare la vista dalle parole, sottolineando con un lungo righello “per coppie” che da destra a sinistra percorre il loro scranno. Inframmezzate a tali visioni “verticali”, in grado di avvicinare l'altezza delle parole dantesche, ne scorrono molte, forse troppe, decisamente legate a orizzonti pianeggianti: corpi che si piegano ondeggiando mentre si attraversano i fiumi infernali; un plastico di Firenze transennato da corde, come un'opera da museo, durante la requisitoria contro i ladroni. Il Purgatorio regala all'inizio frammenti visionari, come le cuffie audio calate dal Paradiso, con le anime a invocare un amore che dovrà attendere. Ulteriore figura di “mediazione” è un postino che di tanto in tanto racconta per cenni alcuni personaggi, fungendo da apparato critico vivente, un “secondo Virgilio” ad uso degli spettatori. A ben guardare, il postino è la creazione che il regista lituano con più evidenza inventa a partire dai versi danteschi, è la sua “scrittura” che più presta il fianco allo stridore provocato da ogni deviazione dalla norma. Il postino è un personaggio incastonato all'interno del racconto quando riceve le lettere dei dannati che Dante gli consegna, facendole precipitare da una sacca bucata, ma è anche in grado di uscirne, rivolgendosi direttamente allo spettatore. Siamo quindi di fronte a livelli della rappresentazione che s'infrangono, in cui chi recita è è a tratti ignaro o consapevole della presenza del pubblico, celato dietro una quarta parete che spesso si rompe. Anche se già ampiamente vista, tale soluzione è forse una delle più accattivanti del disegno di Nekrosius, soprattutto per l'estrema naturalezza con la quale viene affrontata. Chi recita di tanto in tanto viene in proscenio per leggere le parole della Commedia direttamente dal libro, interrompendo la diegesi dei personaggi, esprimendo sottilmente, e con estrema levità, il pensiero della regia: alcune figure possono incarnarsi nei corpi degli attori, per altre non c'è altra via che la lettura. Ciò che spesso pratica una certa regia europea odierna, recuperando una delle lezioni brechtiane e quasi sempre marcando l'aura “epica” della scelta di chi dirige (una delle ossessioni di molte produzioni dell'Accademia degli Artefatti), in Nekrosius avviene “naturalmente”, apparentemente senza sforzo.
Le note di un organo fungono da Leit-motiv per l'apparizione dei prelati: entra a più riprese un chierico con un lungo cappello di cartone rosso, icona che riunisce le molte figure religiose presenti nella Commedia, sempre troppo impegnate a spartirsi il potere temporale. Le immagini si susseguono e l'Inferno si chiude con una distesa di triangoli di auto in panne, con gli attori a reggere gabbiette da uccellini di forme diverse. Metafore visive semplici, in particolare quest'ultima della gabbia, in bilico fra levità e ingenuità, con un lieto fine tanto atteso quanto decisamente catartico. Si oltrepassa il fuoco, Virgilio cede il ruolo di guida a Beatrice, in piedi al lato opposto di Dante. I loro arti inferiori sono paralizzati e sembra incolmabile la piccola distanza che finalmente li separa. Segue il prevedibile scioglimento che permette l'abbraccio.
Sono dunque l'amore, l'arte e Firenze le chiavi che ci offre Nekrosius? La sensazione è che il regista abbia messo in evidenza taluni passaggi, scelti assecondando un fine molto più semplice, basilare: l'illustrazione. Come nei libri: a sinistra scorrono pagine fitte di parole, a destra disegni che corredano i testi. A nostro parere non si tratta di un'operazione che spettacolarizza un intoccabile testo sacro. Il cuore di questa messa in scena risiede invece in una strategia divulgativa, quindi lineare e diretta. Una strategia forse in grado di non aggiungere nulla a quanto Dante ha scritto, al massimo di ricrearlo, di raccontarlo di nuovo. Non si spiegherebbe altrimenti la scelta di introdurre un “postino-narratore”: gli spettatori dovrebbero viaggiare insieme a Dante, e di Dante dovrebbero condividere lo stupore di incontri inaspettati, fantastici, terribili, come quelli infernali. É una via per nulla “facile”, quella di Nekrosius, tutt'al più “semplice” e perciò estremamente complicata. Il nodo su cui discutere è quanto una siffatta strategia corrisponda a ciò che chiediamo al teatro, e alle domande formali che si stanno ponendo gli altri nomi di punta della ricerca europea.
Cosa resta, dunque? Uno spettacolo che percorre una via probabilmente inaspettata. Un'operazione talmente lineare da esporsi al fallimento, perché una volta dispiegato il disegno di fondo, cioè quasi subito, ha già giocato le sue migliori carte. Resta però anche un dubbio: non saremo ormai troppo abituati alle interpretazioni, alle prese di posizioni “critiche” della regia, al punto che una semplice divulgazione ci risulti indigesta? Stiamo forse chiedendo a Nekrosius di essere Castellucci? Battute a parte, si tratta di domande aperte, di difficile soluzione. L'unica certezza è di avere attraversato quattro ore discontinue, fra subitanee accensioni e lenti ma inesorabili spegnimenti. A conti fatti, a restarci fra le mani è un tentativo di “traduzione” non pienamente riuscito: ci s'innalza per merito delle cantiche dantesche e si discende distratti dalle scelte registiche, che hanno però cercato di riaprire una via che quasi più nessuno vuol prendere.