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INTERVISTE > Accumulare residui. Conversazione con Lagartijas Tiradas al Sol

Se rompen las olas è il racconto del terremoto messicano degli anni '80 ma è anche la biografia di Mariana Villegas. Sola in scena, e alternando frammenti biografici a dati storici, l'attrice costruisce una narrazione che s'inserisce in un filone di lavoro più ampio della compagnia Lagartijas Tiradas al Sol, in cui memoria personale e Storia convivono e si confondono. Abbiamo incontrato la Villegas insieme a Carlos Gamboa e César Ríos per farci raccontare come nasce lo spettacolo visto in prima nazionale a Vie Festival 2013.

Come nasce il progetto di Se rompen las olas, spettacolo sul terremoto ma anche narrazione autobiografica?

Mariana Villegas: Credo che tutto nasca dall’autobiografia prima che dal terremoto. La mia ricerca personale lavora intorno al punto in cui si incontrano due elementi: l’evento storico del terremoto e la mia vita. Perciò, Se rompen las olas nasce dalla necessità di fare chiarezza nel passato per raccontare la mia storia.

Come avete lavorato su questa tua ricerca personale? Cos’hai condiviso con gli altri componenti del gruppo per giungere alla creazione?

MV: L’opera è cambiata nel tempo, all’inizio aveva un’altra struttura. Dopo quattro mesi in cui avevamo completato la scrittura dell’intero spettacolo, attraverso un processo di creazione collettiva sul palcoscenico sono andate formandosi altre scene ed è venuta alla luce una nuova struttura. A distanza di quasi un anno, ho sentito il bisogno di modificare il lavoro e di aggiornarlo in alcuni punti, anche per rendere il messaggio più chiaro per qualunque spettatore, che si trovi in Messico, in Cina o in Italia. È stato un processo che si è sviluppato sotto il profilo artistico e personale insieme. Proprio oggi mi chiedevo quando si concluderà questo percorso, cioè quando deciderò di non apportare altre modifiche…

Quindi lo spettacolo può modificarsi e crescere ancora?

MV: Per un lungo periodo, lo spettacolo cambiava mentre veniva rappresentato, mentre ora sono contenta del risultato prodotto, me lo godo e non credo di modificare la struttura ulteriormente.  Si tratta di un lavoro che parla della mia vita, e finalmente inizio a sentirlo davvero parte di me.

In Se rompen las olas affermi di voler raccontare la tua vita ma allo stesso tempo abbiamo percepito che vuoi allontanare gli spettatori dalla verità...

MV: Sì, è vero. Avvicino e allontano contemporaneamente la verità dagli spettatori.

Come sei riuscita a costruire questo equilibrio tanto delicato tra verità e finzione?

MV: Se rompen las olas nasce da frammenti di vita reale e dalle lacune che esistono tra uno e l'altro, si costruisce grazie a ciò che ognuno di noi si inventa per colmare e connettere queste lacune.

César Ríos: Quando una persona ricerca le proprie origini si ritrova sempre con una parte di verità, basata su quello che vive; dall'altro lato, ci sono però delle zone costruite con l'immaginazione che, a forza di essere pensate come possibili, diventano parte della propria storia. Si arriva così a una visione a mezza via fra invenzione e corrispondenza reale ai fatti. Indipendentemente dal grado di verità, quindi, tale visione finisce sempre per riempire le lacune di cui parlava Mariana con ciò che si crede o che si avrebbe voluto credere fosse successo.

Carlos Gamboa: Se rompen las olas è anche un lavoro che si inserisce in una trilogia di Lagartijas Tiradas al Sol, composta da El rumor del incendio e Derretiré con un cerillo la nieve de un volcán. In queste tre opere Gabino Rodriguez, Luisa Pardo e Mariana Villegas ricostruiscono momenti autobiografici che si intrecciano al contesto storico messicano. Nel caso di El rumor del incendio si parla delle guerrillas in Messico, con cui la mamma di Luisa ha contatti diretti. Derretiré con un cerillo la nieve de un Volcán, ispirato all’autobiografia di Gabino, è più una fantasia, un falso documentario; mentre Se rompen las olas di Mariana si collega alla storia messicana con il riferimento al terremoto


Mariana Villegas in Se rompen las olas

MV: Queste tre opere sono state realizzate in momenti differenti ma hanno in comune una ricerca sulla storia dei nostri genitori, in particolare per scavare attorno a ciò che non sappiamo. Abbiamo anche costruito un sezione autonoma sul nostro sito, "La invención de nuestros padres".

CR: Pur essendo molto diversi tra loro, in tutti e tre gli spettacoli c'è una sorta di intenzione comune: "generare" una storia, non riscattarla, studiando la relazione tra il racconto personale (e quindi basato su dati reali) e la finzione.

Volendo insistere su tali nodi, diremmo che lo spettacolo che abbiamo visto a Modena cerca un equilibrio tra attore, personaggio e autobiografia...

MV: All’interno di Lagartijas Tiradas al Sol l’etichetta “attore” non si utilizza molto, svolgiamo tutti più ruoli e funzioni, anche se Luisa Pardo e Gabino Rodriguez, oltre ad avere fondato la compagnia, sono anche quelli che solitamente si occupano della regia dei lavori. Detto questo, tra di noi ci sono degli attori professionisti molto bravi ma nessuno si definisce solamente "attore".

CR: In Lagartijas Tiradas al Sol ci diamo sono regole da rispettare soprattutto sull’investigazione, sulla ricerca storica, ma non si dimentica l’importanza del gioco e dell’ascolto dell’altro. È un tipo di lavoro che va al di là della concentrazione formale. In questo senso è fondamentale la possibilità di lavorare in uno spazio con persone che si conoscono già da tanto tempo, per saltare passaggi di spiegazione. Per noi non esiste, come nel teatro tradizionale, una scrittura a tavolino, dove si discutono le intenzioni e poi si opera un montaggio di tutti i pezzi. Nel nostro spazio di lavoro scriviamo, montiamo e scopriamo in un processo unitario.
Durante la creazione ci facciamo influenzare molto dagli eventi quotidiani: la situazione storica in cui viviamo, le questioni dell’ultima ora… Per esempio, da poco è tornato al potere il partito che aveva instaurato una sorta di dittatura praticamente lungo tutto il novecento (il Partido Revolucionario Institucional), e che 12 anni fa sembrava essere giunto al capolinea. Ci stiamo domandando come sia stato possibile a una distanza di tempo tanto breve. Il progetto a cui stiamo lavorando, dal titolo PROYECTO: PRI., è dunque una riflessione sugli ultimi 80 anni di storia messicana, sul perché questo partito sia tornato e su come sia facile per noi dimenticare.

Una parte consistente dell'evocazione ricercata passa attraverso una scenografia in continua trasformazione. Gli oggetti sul palco hanno anch'essi una valenza autobiografica?

MV: Le scelte scenografiche vorrebbero operare su tre livelli: il mondo infantile, in cui emergono il passato e i ricordi; il presente, rappresentato dal divano centrale; e quella che definisco "confessione", il tavolo dove estraggo i regali dal secchio. In una precedente versione dello spettacolo erano presenti anche una testa di bronzo e altri oggetti, il tavolino con le bambole si trasformava in una scena con la mia famiglia rappresentata dalle teste di bronzo. Cenavamo insieme e poi ci scattavamo una foto.

CR: Tutti gli elementi hanno comunque un significato, un aggancio concreto al nostro immaginario, nel tentativo di conferire un valore simbolico allo spazio.

MV: Va anche detto che lo spazio e i suoi oggetti, e il significato che gli diamo, mutano durante il processo creativo e mentre lo spettacolo viene replicato. Qualcosa che inizialmente era entrato per caso, per esempio, col tempo diventa elemento drammaturgico essenziale.

CR: Nel nostro modo di operare il montaggio ha vita propria: se qualcuno un giorno alle prove porta qualcosa che a suo parere potrebbe servire alla scena lo aggiunge.

CG: L'accumulazione di cui parlano Mariana e Carlos è probabilmente un tratto comune messicano, del teatro ma non solo. Si verifica una situazione; un’azione lascia delle tracce; a partire da queste, l’opera continua si sviluppa sui residui che si vanno accumulando sul palco, come la sabbia. Alla fine dello spettacolo la spazio scenico è ridotto a un "pasticcio", come dopo una festa. In fondo la nostra scenografia è anche una metafora della vita: non si può cancellare quello che è successo, bisogna andare avanti.



MV: Un altro esempio importante che racconta il nostro lavoro, per quanto riguarda l'accumulo costante, sono le immagini video che si proiettano sullo schermo. In una fase molto avanzata della creazione di Se rompen las olas, abbiamo fatto un'analisi accurata e una selezione documentaria, per tentare di avvicinarci il più possibile, almeno con il video, al piano della verità storica.

Visti i riferimenti ad uno specifico immaginario collettivo, quale differenza avvertite fra le reazioni del pubblico locale e di spettatori europei?

MV: È vero che si tratta di una vicenda locale, ma fino ad ora non c’è stata grande differenza nella ricezione. Io spero che quando la gente assiste allo spettacolo non pensi che la questione più importante sia la mia vita, o ciò che mi è capitato, ma al contrario riferisca ciò che vede alla sua propria biografua. Credo che Se rompen la olas sia un’opera molto personale ma allo stesso tempo spero abbia una portata generale, perché in quanto esseri umani ciò che racconto ci riguarda tutti. Se le persone entrano rivedono la propria storia ho raggiunto il mio intento.

CR: I ricordi di Mariana, quelli dell’infanzia e dei suoi genitori, si collocano in una zona e un’epoca specifici. Da un punto di vista estetico, i suoni e le immagini appaiono più familiari al pubblico messicano, così come la  maggior parte delle battute contiene una tensione ironica molto messicana. Tuttavia, come diceva Mariana, la ricerca delle proprie origini è come il viaggio di Ulisse, riguarda tutti.

Come è la situazione generale in Messico, rispetto a una compagnia di teatro indipendente come la vostra?

MV: In Messico non si può vivere di teatro, in realtà non so noi di cosa viviamo.. (Risate generali). Nonostante questo c'è una grande vivacità nella scena messicana, ci sono tante compagnie.

CR: Credo che se si vuole veramente fare teatro sia necessario agire, organizzarsi, studiare e lavorare nonostante tutto. Noi ci proviamo, e sono ormai sono 10 anni che Lagartijas Tiradas al Sol esiste.

Parlando del tema della memoria che è molto sentito e diffuso anche in Europa, avete qualche referente, per esempio i Rimini Protocol, SheShePop; o dei contatti, delle influenze con il teatro europeo?

CR: Sí, li conosciamo ma non sono influenze o fonti di ispirazione decisive per noi. Sicuramente il lavoro sulla memoria è un punto in comune importante e che ci incoraggia e ci invita a proseguire.

CG: Le nostri fonti di ispirazione provengono anche molto dalla letteratura e dal cinema. Luisa, Gabino e Francisco Barreiro, un altro regista che lavora con noi, stanno attualmente lavorando con un produttore cinematografico messicano a una seria televisiva. Personalmente, mi riconosco molto in una frase che ripete spesso Gabino: “Niente è nostro e tutto è rubato”.

Ultima domanda: da dove prende il nome la compagnia Lagartijas Tiradas al Sol, “lucertole distese al sole”? (risate)

MV: Secondo me, il nome viene da una canzone per bambini che parla delle lucertole distese al sole..

CR: Ah Sì? Io ho un’altra versione. Quando io e Luisa stavamo montando la nostra prima opera, Esta es la historia de un niño que creció y todavìa se acuerda de algunas cosas, guardavamo le lucertole e ci distendevamo anche noi dopo il pasto al sole perché non avevamo un posto dove riposare. Probabilmente me la sono inventata...

CG: Io non conosco un’altra versione... quindi voto per quella della canzone!

A cura di Alessia Rosa Avallone
Laboratorio "Per uno spettatore critico" a Vie 2013


 

   

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