Mentre il festival si avvia alla conclusione, incontriamo il regista Theodoros Terzopoulos. L’artista greco, presente a Modena con Dancer e con Alarme, ci accoglie sul palco del Teatro delle Passioni.
Maestro, il teatro è in crisi?
La crisi che ci circonda è prima di tutto culturale, etica, ideologica: l’uomo si è fatto piccolo, vuoto, il suo corpo è diventato passivo, non è più in grado di affrontare il conflitto, la vita, così il teatro ha perso la sua grandezza. Tutto questo, però, può aiutare, perché accende il bisogno di ritrovare i grandi princìpi: guardiamo la cultura greca, latina, con grandi passioni e idee che sembrano assenti nel nostro tempo e cerchiamo di vedere da capo la vita, l’arte, l’ideologia, i partiti. Questo non vuol dire lasciare il presente per l’antico, per la tradizione, non è spinta all’anacronismo, ma è un tornare alla ricerca interiore, per approfondirla di nuovo: tornare alla tradizione, attraversare il presente e andare verso il futuro. Negli ultimi anni il teatro si è costruito attraverso piccole storie, drammi familiari, miserabili problemi quotidiani. Questo non aiuta, al contrario è al servizio del potere, del sistema. Per vedere la vita basta la televisione, a teatro cerco un’altra cosa. Abbiamo bisogno di grandi idee, di grandi tensioni, come quelle della tragedia classica: tra umano e divino, tra uomo e uomo, tra privato e pubblico. In Alarme, ad esempio, vediamo due donne rotte da una lotta terribile per il potere e a vincere non è la buona recitazione o la regia, ma la forza del conflitto che portano sulla scena.
Qual è il lavoro dell’attore?
L’attore non deve parlare solo al presente, ai presenti. Non lavora per il realismo o per l’interattività, ma incorpora la situazione: il testo vive attraverso la sua carne, i suoi gesti. Lo studio, la “téchne” dell’attore è una ricerca verso i luoghi dell’energia che consentono la comunicazione. In Dancer l’idea era di far precipitare l’attore in un baratro, farlo penetrare nel profondo. Tasos Dimas è sulla scena e al contempo non c’è: la sua recitazione scorre orizzontalmente verso il pubblico, ma anche verticalmente verso gli “assenti”, i morti, i fantasmi. La capacità di mettersi all’interno di queste due forze fa il buon attore, la capacità di aprire il tempo interiore. Da regista ho sempre cercato di rimanere in contatto con l’umano, con la presenza sulla scena, senza fare il decoratore, senza creare l’effetto. Dobbiamo lavorare su quel corpo che, se riesce a superare intorpidimenti e passività, se riesce a farsi grande, può essere il vero oggetto della rivoluzione.
Fino alla catarsi… è ancora possibile oggi?
Catarsi è il risultato del conflitto, senza conflitto non possiamo parlare di catarsi, ma di ipnosi, di lavaggio del cervello. È facile parlare di bellezza, dire che uno spettacolo piace o non piace, alzarsi dalla poltrona con un sorriso vuoto, vivere una vita bella e stupida. Il teatro deve creare tensioni, relazioni. Bisogna affrontare la bruttezza, il lutto, la cattiveria, occorre che il teatro sia pericoloso, mostruoso per iniziare il confronto, il conflitto.
Nessuna speranza per il futuro?
Il tempo è già cambiato. Oggi le piccole compagnie, gli artisti che hanno una necessità, un’ossessione, riescono a catalizzare un’energia dirompente, riescono a creare un teatro molto attivo, che si presenta come un urlo. Questo è molto utile oggi: serve un’arte autentica, senza alibi, senza quella pseudo-prosperità offerta dal capitalismo a difenderla. Un nuovo umanesimo è necessario: l’uomo al centro di tutto, non i numeri.