«Medea, il suo destino è questo, non essere amata». Il monito che il proiettore strappa con lettere frenetiche su un telo cucito di pelli e ritagli di stoffa rischiara a stento una scena tetra, dura, e illumina appena l’origine, l’esito della tragedia. Palude salmastra fatta di sabbia, garrire di gabbiani e sciabordio di acque, dove Karina Medvedeva si staglia in figura tesa, cinta da un lungo abito scuro, i capelli raccolti a scoprire il volto, buio sulla pelle chiara. La Medea che l’attrice russa ha portato a Vie, con la regia di Ekaterina Khanzharova, si costruisce nel paesaggio torboso, umido, di un Nord Europa crudo, arcaico; pare esplorare i territori in cui Lars von Trier ci ha già accompagnato nella sua versione cinematografica dell’opera euripidea.
ph Chiara Ferrin
Primitivi tamburi e vocalizzi animaleschi preannunciano la lacerazione della donna tradita, ripudiata e scacciata dalla “polis”: abbandonata dal marito per un’altra donna, Medea è sola coi frantumi di quella casa (“oikos”) che muoveva la sua vita e, infiammata da un amore straziato, tesserà la sua vendetta carnefice e infanticida.
Tutta la forza espressiva dello spettacolo passa attraverso gli occhi severi dell’attrice spalancati sulla platea, si regge sull’orlo delle sue labbra dure e perentorie che gridano il destino di Medea. Amore, nell’inevitabilità della scelta atroce, febbre insopportabile di una volontà obbligata al dolore, rabbia. La Medvedeva si fa bestia, druido, addenta la carne cruda di un pesce, ne apre il ventre per leggerne le interiora; s’imbratta di acqua e sabbia, accetta il sangue e lo spalma sul mento; ruota gli occhi accecati a studiare, avvelenare, finché non si scoprirà intrappolata nel suo stesso ordito: muta, si sporca, trema fino a scolpire il dolore sul suo viso.
Il suo corpo, però, si muove di passi incerti, di gesti che si fanno posa, eccessivi, emulati, e la scena non è capace di accogliere e far risuonare il vibrare di quel volto, non riesce a sorreggere la sua intensità interpretativa. Lo scorrere profondo dell’azione si rompe nella continua rincorsa di piccoli gesti a effetto. Una rete elastica si materializza, ormai ridondante, a cingere simbolicamente il collo di Medea; le frattaglie vengono portate alla bocca, ma assaporate appena, delicate figure di sabbia, ambigue dunette marroni a terra, vengono costruite a rappresentare i fragili figli. L’energia si blocca sul palco e le viscere che dovrebbero preannunciare il tragico futuro, gli oggetti che dovrebbero caricarsi di una potenza evocativa o di un peso simbolico, restano morti, inerti nelle mani della fattucchiera, per quanto animosamente lei tenti di scuoterli. Le basterà calpestare appena un mucchietto di sabbia per uccidere i figli e sarà costretta a sopportare il fardello di cadaveri leggeri come pupazzi di gomma piuma: la forza e profondità di quell’esile figura scura al centro della scena inerte, rischiara a stento l’origine, l’epilogo della tragedia.