Un teatro in crisi, in una società in crisi, che cosa cerca? E noi, cosa gli chiediamo?
Si potrebbe partire da qui per riattraversare Vie Festival 2013, e così tentare discuterlo superando la strettoia della semplice valutazione delle opere, pur necessaria. Dopo dieci giorni di spettacoli, aleggia una sensazione a metà fra già visto e potenzialità non del tutto espresse, e viene naturale guardare cosa è accaduto nelle edizioni precedenti. Sembrano anni lontanissimi, quelli in cui si aprivano squarci su un quotidiano assurdo attraverso lenti formali mai in pace con se stesse. Le figurette di Richard Maxwell, le ricostruzioni dei Rimini Protokoll, i mondi anestetizzati di Toshiki Okada. Anche una certa creazione autoriale europea, probabilmente già divenuta maniera ma pur sempre in grado sollevare questioni (Ostermeier, Ivo Van Hove, Nekrosius, Platel), in questa edizione è sembrata mancare, a favore di artisti “sicuri”, ormai ben noti a Modena e in Italia.
Nelle forme è sembrato invece prevalere una sorta di gusto medio, in grado di non dividere eccessivamente, meglio se connesso o almeno in ascolto di temi scottanti della politica, della società: la bidimensionalità narrativa di Onegin. Commentaries di Alvis Hermanis, dramma divulgativo formalmente intrigante anche se dentro a un solco ampiamente praticato; gli spostamenti fra biografia, vena documentaria e invenzione finzionale di Mariana Villegas, sul vivere in Messico dopo un terremoto, e quelli di Tiago Rodrigues, sul fare arte sotto una dittatura, entrambi programmati dai maggiori festival europei, segno di una tendenza alla messa in discussione dell'innocenza del racconto che se non supera le gabbie che da sola si impone diviene stilema, moda.
C'è stata anche la regia, a Modena. Plini, Adriatico, il giovane Renga della Paolo Grassi con Mayorga, Koltès, Von Mayenburg. Drammaturghi in grado di parlarci dell'oggi modellati da uno sguardo che sovrintende, ritma, punteggia e guida gli attori. Se il testo ci parla davvero del presente, e se gli attori sono presenti, tale linea di lavoro può smarcarsi da una tensione all'intrattenimento molto facile da lambire, ma che in ogni caso difficilmente guarda in avanti, anche perché è tangenziale al modo maggioritario di un sistema teatrale sempre più reazionario.
Giocoforza, dunque, che lo sguardo si sia fermato su proposte irregolari, fuori da binari noti, su spettacoli che pongono una domanda all'arte teatrale stessa, alla sua identità. Perché fare teatro? In una società finta, come continuare a proporre finzione? Da un lato ci sono le singolarità irriducibili, gli attori-autori-registi-scrittori alla Berardi, dall'altro le alterità alla Terzopoulos, in grado di offrire opere massimo ed estetiche novecentesche, confezionando ritualità spettacolari talmente distanti allo spirito dei tempi da risultare contemporanee.
Per rispondere a tale domanda abbiamo assistito anche un avvicinamento asintotico fra chi l'arte la fa e chi la osserva, con tutti i rischi del caso. Il piccolo saggio sul senso del teatro della non-scuola di Martinelli, rarissimo esempio di un teatro che, con un salto di millenni, torna a essere spazio immaginario in cui una comunità si guarda e si discute. Ma anche le “vertigini democratiche” di Virgilio Sieni, agorà da abitare per modificare le proprie abitudini di movimento e di sguardo, per trasfigurarle. Non è un caso che, sia per Sieni che per Martinelli, a un certo punto del percorso si sgombri il campo dai finti orizzonti di una partecipazione festosa. L'arte farà anche bene, il teatro otterrà pure l'effetto di una liberazione, ma non prima di avere dichiarato la sua totale estraneità ai modi del quotidiano, domandando una salita, una fatica, almeno a chi partecipa.
Vie Festival è sembrato quindi percorrere diverse idee di teatro, forse assecondando eccessivamente la sua vocazione di rassegna da teatro stabile. Qui è infatti necessario, più che in altri luoghi, dare spazio a varie istanze, non chiudere, moltiplicare. Ma se fino agli anni precedenti ogni idea di teatro mostrava almeno una "emergenza" , recuperando in tali punte il senso stesso della parola festival, quest'anno ci è sembrato piuttosto di attraversare un'ottima programmazione ordinaria, che probabilmente si sarebbe trovata a proprio agio in una stagione teatrale solo un po' più coraggiosa del normale. Si dirà che non tutte le annate permettono le vertigini, soprattutto quando si deve ricostruire, quando le ferite della crisi e del terremoto sono tutt'altro che storia passata (bastava camminare in uno dei tanti paesi che ospitavano gli spettacoli, da Finale Emilia a Novi, da Mirandola a San Felice sul Panaro). Andare verso queste ferite, tornare a immaginare un teatro che sappia abitare uno spazio degli scontri, si sarebbe detto negli anni '70 (o delle crisi, diciamo oggi), ci è parsa allora la vera proposta di Vie 2013, connettendosi all'attività annuale di un ente che già si sta ponendo domande simili (pensiamo al Ratto d'Europa).
Cosa chiediamo, dunque, al teatro? Probabilmente solo un po' di verità nella crisi, sapendo che quando l'arte tenta di produrla, oggi, è obbligata a reinventarsi quasi da capo, mettendo in discussione prima di tutto se stessa.