[Articolo scritto per La Gazzetta di Modena, pubblicato il 22 ottobre 2014]
Guardare, ascoltare e mettere in connessione. Siamo dentro un'officina, il laboratorio “Per uno spettatore critico” che si svolge all'interno di VIE, vicino alle opere e agli artisti. Oggi, pronti all'ultima settimana di festival, vogliamo ripercorrere che cosa abbiamo visto e pensato, per condividerlo con chi ci segue o arriva adesso. Abbiamo provato allora a scegliere, raccontando le “punte” di questi primi quindici giorni, tracciando un excursus tra le opere.
Danio Manfredini pone una domanda trasparente al lavoro dell'attore: in che modo il suo agire è salvo, utile, visibile, quando ogni sforzo nel processo provoca strati di ferite sul corpo? Senza tematizzare, Vocazione inanella le sfumature di un mondo tra dimensione scenica e personale, intesa come spazio di sedimentazione, di preparazione e al contempo di rilascio di uno stato operativo.
Dopo spettacoli di una frontalità trascinante, in Jesus i Babilonia Teatri ammorbidiscono di netto il loro filtro. Lanciano la proposta per una nuova religiosità, che ricostruisca la divinità a somiglianza dei fedeli, rovesciando il dogma della creazione. Giungono così a un elenco di “credo” che gioca con le immagini del Cantico di San Francesco per raccontare se stessi, invocando una soluzione che salvaguardi lo sguardo di un figlio.
Lo spettacolo di Lisbeth Gruwez opera in maniera diretta sul corpo e sugli occhi. AH/HA ci trascina in una perdita di controllo, non raccontando solo l'interpretazione di una gamma di accenti sentimentali: c'è una tensione che inquieta, che ci chiede che cosa nascondiamo ogni giorno dietro le nostre espressioni.
In One Flew over Kosovo Theater Jeton Neziraj lavora su un “fuori” che assedia in maniera stringente il proprio teatro, su cui pende l'attesa per l’indipendenza del Kosovo. Lo spettacolo scorre, ma l'immaginario scenico è abbastanza povero, proporzionale ai sentimenti e ai colori della drammaturgia cupa, ironica e cinica.
Con Galeb, gli attori dello Zagreb Youth Theatre risvegliano la vita della scena, diventando gli strumenti attraverso cui suonare le qualità del “Gabbiano” cechoviano, le attese e gli umori, somatizzando le scosse dell’animo dei personaggi. L’azione è qui in realtà una catena di reazioni corporee che, nello spazio di una scenografia continuamente manovrata, diventa sinfonia di presenze ritmata da frammenti di dialogo.
Cinque quadri come cinque altorilievi in movimento compongono la Dolce Vita di Virgilio Sieni. Dall’Annuncio alla Resurrezione, una comunità danzante si appresta alla costruzione di concetti, sorreggendoli col corpo. È l’elaborazione di una vera e propria Archeologia della Passione, una raccolta di frammenti iconografici sulla vita di Cristo, gettati in aria come cocci a disegnare immagini cangianti ma terse come un teorema.
Angélica Liddel ci ha consegnato You are my destiny, spettacolo così volutamente intenso da diventare inutilmente ridondante, ispirato al mito di Lucrezia, suicidatasi in seguito a uno stupro. All’interno di una composizione plastica e coloristica attenta, azioni di gruppo ben orchestrate si alternano ai solitari deliri di un’eroina un po’ tiranna e un po’ depressa, non sempre consapevole delle sue azioni, affogate infine in citazioni tanto colte quanto pretestuose.
E ancora, Macbeth su Macbeth su Macbeth risuona come un’eco tra le nebbie del palco in cui tre figure danno voce alla tragedia di Shakespeare, stratificando i ruoli, moltiplicandone gli incubi. In questo lavoro Chiara Guidi scompagina il testo e compone una partitura di lampi luminosi e ritagli di nero, mentre un violoncello ne amplifica la profondità degli anfratti, aprendo squarci oltre il visibile.
Questo veloce elenco non esaurisce certamente la complessità del Festival, e altre visioni troveranno posto su queste pagine fino al 25 ottobre. Rimaniamo vigili, in cerca di altre idee di teatro capaci di aprire nuove domande.