Kaïros, sisyphes e zombies della compagnia multiculturale L'Alakran è il frutto di una riflessione sul rapporto dell’uomo con il tempo, capace di costruire una nuova teoria su di esso, attraverso le filosofie dell’Antica Grecia e quelle Cinesi. Il teatro diventa il luogo per evadere dal tempo circolare e ripetitivo e da quello lineare, sempre che gli zombie siano decisi a entrare nel Kaïros. In questa intervista il regista Oskar Gómez Mata ci racconta la sua concezione del tempo nel teatro e del suo lavoro all'interno della compagnia.
Quando hai iniziato a occuparti di teatro? Com’è nata la compagnia?
Inizialmente ho lavorato con la compagnia Legaleón-T dal 1986 al 1996 in Spagna. Nel 1997, trasferitomi a Ginevra, ho cominciato un nuovo percorso al teatro municipale, il Théâtre Saint-Gervais. In quella città ho capito che potevo cominciare un nuovo percorso, e con altri due attori abbiamo posto le fondamenta di L’Alakran, con cui sto lavorando ancora oggi. Dobbiamo anche molto a Barbara Giongo che ci ha aiutati con la produzione, l’amministrazione e la traduzione dei testi. I nostri spettacoli sono sempre poetici, ludici, filosofici e politici. Queste sono anche le quattro parole chiave di Kaïros...
Quali sono i lavori che potresti ritenere emblematici del vostro modo di vedere il teatro?
Mi verrebbe da dire Optimistic vs Pessimistic, messo in scena nel 2005, ma in realtà lo sono tutti. La costante nei nostri lavori è cercare di capire come avviene la relazione tra il pubblico e la pièce. Cosa pretendiamo dal pubblico? Cosa ci aspettiamo? Per studiare questo processo abbiamo lavorato nei teatri come nelle gallerie d’arte, strutturando la scena come una mostra che a volte rende il pubblico partecipe. Anche in Kaïros succede qualcosa del genere.
A Vie presentate Kaïros..., un lavoro del 2008. Com’è nato e come s’inserisce nel vostro percorso?
Per diversi anni ci siamo allontanati sempre più dai luoghi tradizionali del teatro, per sperimentare. Per Kaïros invece ci siamo chiesti cosa sarebbe successo se avessimo provato a portare in un vero teatro tutte le cose che avevamo fatto all’esterno, e se potevano trovare un’applicazione negli spazi del classico teatro “all’italiana”. L’idea era di smontare pezzo per pezzo il sistema convenzionale del teatro classico, basato su rapporti frontali, sul confronto, le posizioni di entrata e uscita degli attori sempre uguali (in francese “corte” e “giardino”), lavorando contemporaneamente su Kaïros..., una concezione di tempo propria dell’antica filosofia Greca.
Il titolo dello spettacolo è Kaïros, sisyphes e zombies. Cosa rappresentano questi tre elementi?
Sisyphes e gli zombie possono essere in un certo modo la stessa cosa. Sisyphes è un personaggio della mitologia greca, costretto a portare un enorme masso sulla cima di una montagna per poi ricominciare da capo ogni volta, all’infinito. Gli zombie rappresentano lo stato d’incoscienza nei confronti della vita. Muoiono e tornano in vita. Ecco l’Eterno Ritorno di Nietzsche. Gli zombie siamo noi.
Kaïros rappresenta infine la via d’uscita, si tratta infatti dello stato ideale dell’attore. Si potrebbe ricollegare al concetto cinese di tempo, che è sferico. Ovviamente si tratta di una mia teoria personale, non la verità assoluta... L'attore, quando raggiunge lo stato ideale Kaïros, riesce a uscire dalla sua dimensione corporea, osservando contemporaneamente se stesso e il pubblico, e ad agire concretamente sulla scena. Bisogna anche riuscire a rompere la tragedia di essere nel Kronos, il tempo lineare.
Possiamo dire che all’interno della scena a teatro l’attore riesce a giocare con il tempo?
Si, assolutamente. Deve avere questa capacità, ed è così che succede. Riesce a percepire dov’è il pubblico, conoscerne in anticipo il pensiero, e fare quel che c’è da fare nel momento giusto. Quello che accade nel tempo è soltanto una possibilità di tutto quello che potrebbe succedere. Il fatto che alcuni accadimenti stiano capitando adesso non nega che possano avvenirne infiniti altri contemporaneamente. Possiamo immaginare strati di tempo, o che qualcosa che succede in un punto immaginario, possa essere già successo in altri punti intorno.
Ciascuno di noi costruisce il proprio mondo a seconda di come lo pensa. Mi vengono in mente anche La vida es un sueño di Calderon de la Barca o il pensiero di Gorgia, secondo il quale nulla esiste e anche se esistesse non potremmo conoscerlo o dirlo...
Rispetto a questo, mi chiedo se possiamo davvero affermare per esempio che quel che stiamo vivendo è veramente la vita? Non possiamo saperlo. Nessuno può dimostrare se la vita è un sogno oppure no.
Chi sta sul palco esiste solo perché noi, il pubblico, stiamo osservando in quella direzione. E viceversa. Anche fisici quantistici dicono che non c’è realtà, che non esiste niente. Le cose esistono solo quando c’è una relazione tra l’oggetto e l’osservatore. Un qualsiasi oggetto esiste perché lo sto osservando, non c’è realtà al di fuori di questo, nessuna certezza ma solo tante possibilità. E questo è provato scientificamente.
Gli stoici hanno sviluppato l’idea di Kaïros, che rappresenta l’opportunità e significa “fare in modo di agire” quando tutte le cose si trovano al posto giusto nel momento giusto. Questo mi porta a pensare che siamo noi a trasformare la realtà. È un'idea che apre tanti scenari. L’attore ad esempio vuole provare certe emozioni, ma mai il pubblico le sentirà come un altro. Quando si lavora con un attore, loro sono sempre convinti che la gente debba comprenderli. Nessuno si capisce mai davvero. Al massimo si può intuire che chi sta in scena sia triste, ma in base alla propria esperienza della tristezza, e non a un’idea di tristezza assoluta. Gli attori con cui ho lavorato si sforzano sempre molto per immedesimarsi nella parte. Ogni persona filtra quanto vede in funzione delle proprie esperienze. Dipende da cosa ha fatto prima di venire a teatro, da dove vive. Tutto questo va tenuto in conto. Non c’è soltanto una verità, ma ce ne sono tante quante sono le persone che compongono il pubblico.
Francesco Demitry
(per uno spettatore critico 2014)