Jeton Neziraj è un drammaturgo di Prishtina, direttore del Teatro Nazionale del Kosovo. La studiosa Anna Maria Monteverdi ce lo presenta come un artista rivoluzionario “impegnato sul fronte dell’attivismo intellettuale e sul margine di libertà nei processi socio-politi in atto” (nella prefazione del libro La distruzione della Tour Eiffel, Cut-Up Edizioni 2014).
Per il valore politico del suo teatro, la notorietà di Neziraj è arrivata sino in Germania, in Svizzera e in Francia dove i suoi testi sono stati tradotti e prodotti. Autore di quindici commedie, discute nelle sue opere di terrorismo, razzismo, discriminazione, corruzione e soprattutto del Kosovo dopo la guerra di indipendenza del 1999.
Nel 2002 fonda la compagnia Qendra Multimedia occupandosi di produzioni e co-produzioni nazionali e internazionali. Ha portato avanti più di cento progetti culturali in Kosovo, Serbia, Macedonia, Francia, Germania, UK e Austria.
A VIE 2014 ha presentato Qualcuno volò sul Teatro del Kosovo, titolo ispirato al famoso film con Jack Nicholson. In scena c’è una compagnia teatrale a cui il Primo Ministro ordina di interrompere le prove di Aspettando Godot per un nuovo spettacolo sulla dichiarazione di indipendenza del Kosovo non ancora avvenuta. Con ironia e con alcuni espedienti narrativi, viene portata in scena la libertà “vigilata” di un giovane Paese da poco indipendente.
Che tipo di lavoro fa con i suoi attori?
Non abbiamo un metodo di lavoro specifico da seguire alla lettera. È un normale processo teatrale. Alcune volte lavoriamo per ben tre mesi, quando sono io a scrivere i testi. Elaboro una prima bozza che verrà letta dai miei colleghi scenografi, musicisti, coreografi e attori: cerco le criticità del pezzo, nuovi spunti e punti di vista. Se non è convincente, ne scrivo una seconda o una terza versione. Alla fine raggiungiamo un risultato finale dove risalta l’internazionalità del team artistico, proveniente dal Kosovo e da altre realtà. In ogni produzione invitiamo per esempio musicisti italiani, coreografi bulgari, scenografi tedeschi, tecnici luci dall’Irlanda, coreografi svizzeri. Una collaborazione multipla insomma, perché noi crediamo nella confluenza delle diverse arti del mondo nelle nostre produzioni, verso un’apertura ideologica e non solo estetica.
Come organizzate le vostre numerose tournée all’estero?
In realtà, le prime assolute dei nostri spettacoli le facciamo tutte nel Teatro Nazionale del Kosovo e poi andiamo in tournée. Preferiamo le produzioni con massimo dieci attori, per abbattere i costi di trasporto, vitto e alloggio e per non creare troppi problemi ai festival che non hanno denaro sufficiente per rimborsare tutte le spese. Per le scenografie cerchiamo di pensarle non troppo grandi, scomponibili in moduli da mettere in valigia, per un trasporto economico e maneggevole. Le parole magiche sono compattezza e organizzazione.
Come descriverebbe la differenza tra il teatro prima e dopo la rivoluzione?
Prima della guerra, dal ‘90 al ‘99, non c’erano tanti teatri in Kosovo; quei pochi che c’erano, erano poveri, di scarsa qualità e occupati dal regime serbo. La ricerca teatrale era rimasta indietro rispetto all’Europa perché non ci lasciavano provare o vedere altri spettacoli al di fuori dei nostri. Ma dal 1999 tutto è cambiato. Non dico che sia un teatro migliore, ma almeno hanno cominciato a esserci artisti più preparati. Il vero problema è che in questa fase non può ancora essere prodotto un buon teatro, perché per colpa della crisi economica il Kosovo è uno dei paesi più poveri, quindi nessuno spenderebbe quei pochi soldi che restano per il teatro. Nonostante tutto, alcune piccole compagnie stanno cercando di emergere nel mercato europeo, cercando di andare avanti.
Quali sono secondo lei gli orizzonti che il teatro in Kosovo deve tenere presenti?
Credo che siano uguali in qualsiasi paese: dipende da cosa vogliamo. Potremmo desiderare il “teatro per il teatro”, che persegue solo una finalità artistica, legata all’estetica; allora lo scopo è fare un buon spettacolo, una bella produzione. Oppure possiamo credere – così come facciamo noi – in un lavoro sullo spettacolo per opporsi al governo e alla politica del nostro paese. Deve essere un teatro che tocchi le ferite e superi i tabù, anche se è un’operazione che lo rende doloroso per chi ascolta, ma è anche l’unico modo per smuovere qualcosa del vecchio teatro, dove gli argomenti di politica sono “spigolosi”, difficili da trattare.
Come sono visti i suoi spettacoli dai politici?
C’è da dire che i politici non vanno molto spesso a teatro, e non so dirti neanche che cosa abbiano pensato quando si sono informati su lavoro che stavamo facendo con la compagnia. Però nel 2012, la prima del nostro spettacolo fu un enorme scandalo, tanto che il governo non ci volle dare il consenso per andare in scena nel nostro Teatro Nazionale. È stata una classica censura, visti gli argomenti scottanti. Volevano vietare lo spettacolo, e infatti siamo andati in scena solo due giorni dopo la data prestabilita. Gli uomini al potere credono che il teatro non sia in grado di poter cambiare la situazione politica di un paese, ma la prima cosa che eliminano quando vogliono evitare le rivolte è proprio quello. A Istanbul sta accadendo la stessa cosa, e noi immaginiamo il perché…
Progetti per il futuro?
Stiamo lavorando a Diffraction#1 In paradise artists can fly, che non sarà un vero spettacolo teatrale, ma una performance che metterà in musica drammaturgie e canzoni, avvicinandoci al teatro post-drammatico. Il debutto sarà agli inizi di novembre a Prishtina e il 19 novembre saremo al teatro Sant’Andrea di Pisa.
Angela Sciavilla
(per uno spettatore critico 2014)