I complessi meccanismi del mondo si abbattono sulla società, su quella stessa società che li ha creati. Tutti i cliché, i luoghi comuni diventano necessari per continuare il gioco dell'apparire a cui siamo abituati. Questa realtà ci viene mostrata in Un pezzo per SPORT. Un'altra visione su Elfriede Jelinek di Andrea Adriatico, visto all'Arena del Sole in prima assoluta. Entrando in sala il sipario è già aperto, gli attori sono in pantaloncini, fanno ginnastica, esercizi di riscaldamento e si dividono in due squadre, quella femminile e quella maschile. Mentre le luci si abbassano e i protagonisti si mettono ai lati opposti del palco sedendosi su due file di sedie, vediamo che al centro della scena da un'altissima e immensa gonna nera spunta il busto di una donna, l'Autrice, come verrà chiamata dai personaggi di questa pièce, a personificare la stessa Jelinek. Non c'è tempo per pensare, bisogna muoversi, sudare, correre e tonificarsi; in tutto lo spettacolo i personaggi non sono mai statici ma fanno addominali e stretching, anche mentre parlano. L'Autrice-arbitro, interpretata da Patrizia Bernardi, sovrasta la scena e col suo fischietto dirige l'opera teatrale, presentando i personaggi tramite una delle interpreti sul palco. Vediamo battibecchi tra uomini e donne, ragazze che espongono il proprio abito-corpo, signore che celebrano la loro bellezza e uomini Ken con la maglia di Arnold Schwarzenegger.
Una presenza si aggira tra i protagonisti, un corpo col volto da falco interagisce con gli altri e diventa oggetto di scherno nel momento in cui viene svelata la sua vera identità: è una trans (personificata da Eva Robin's) che nonostante la maschera da predatore diventa vittima di una società che non accetta i “diversi”. Cos'è la diversità? Avere un organo sessuale diverso o avere un'intelligenza, un'immaginazione diversa? Avere un corpo snello e slanciato o non preoccuparsi del proprio peso? Essere una donna o essere un uomo? Siamo davanti a un elogio del corpo che sconfina in una critica all'omologazione, una continua trasfigurazione che proietta il mondo reale usando lo sport come metafora di vita. “Che anche i corpi si potessero plasmare. Non lo sapevo”: questa è la critica dell'Autrice che manovra a suo piacimento i suoi subordinati, anche scaraventandoli su stessa, come a rimarcare lo stato mentale di una società che tenta di ribellarsi nonostante la consapevolezza di essere manipolata anche quando protesta.
Vediamo una competizione tra individui del sesso opposto, tra donne che vogliono paragonarsi ad altre donne e che a loro volta si paragonano agli uomini. Una sfida che va avanti a mosse intrise di vacuità, a colpi di palle da tennis scagliate contro i corpi degli interpreti, involucri inutili che svaniscono cascando a terra. Perché il nostro corpo è solo materia, un mezzo, un vestito che può essere buttato e cambiato. Perché i dialoghi provocatori e i discorsi frivoli che accatastano vuoto su altro vuoto nascondono, in realtà, una profonda crisi umana su come stare al mondo.
Alessandra Corsini
(per uno spettatore critico 2014)