Scavare nella memoria per rintracciare un dolore rimosso, una perdita volutamente nascosta dal nostro inconscio perché troppo forte per poter essere affrontata. Dopo di Gabriella Salvaterra mette in allerta tutti e cinque i sensi e può essere la cura o comunque l’espediente per riconoscere una ferita che abbiamo sepolto. Il vero interrogativo che questa esperienza pone è se avremo o meno il coraggio di ammettere la “frattura” che ci portiamo dietro, se avremo la forza necessaria di affrontarla una volta tornati alla nostra vita di tutti i giorni.
Attraversiamo otto stanze diverse meticolosamente arredate, alle quali si accede attraverso corridoi in penombra quasi a disorientare il nostro percorso emotivo, un modo per sorprendere noi stessi mentre entriamo in contatto con nuove visioni, nuovi ricordi, nuovi odori, nuovi rumori, vecchi rammarichi. Si passa da un ambiente stipato di oggetti comuni (valigie, orologi, scatole di latta, ninnoli di diversa natura) come in una vecchia cantina, a una piccola cucina strabordante di piatti con frasi-ricordo impresse nel retro, dove il profumo di pulito si lega al battito regolare della goccia che cade dal rubinetto nel lavabo, per poi essere stravolti da un odore acre che avvolge una strana sala da pranzo. Strana perché la tavola elegantemente apparecchiata è circondata da una fila di specchi che va a moltiplicare le figure degli spettatori partecipanti, e proprio qui incominciamo a scavare nel nostro passato, attraverso i drammatici racconti di una delle attrici del Teatro de los Sentidos (compagnia che lavora sul teatro sensoriale, nota a livello internazionale, di cui la Salvaterra è attrice e set designer), prima incursione fisica nel nostro cammino interiore. «E tu hai qualcosa da riparare?», questa è la frase che ci accompagna mentre entriamo in uno stanzone illuminato da fioche lampadine che scendono dall’alto, con bacinelle di vario genere disposte a terra a raccogliere le gocce cadute dal soffitto, talmente fitte che lo spettatore deve fare molta attenzione a dove mette i piedi. Sembra quasi un invito a riflettere sull’atteggiamento che accomuna noi tutti, quello di chi crede di poter affrontare i problemi solo alla superficie e mai andando alla radice: non ripariamo il soffitto ma usiamo delle bacinelle per raccogliere l’acqua che casca. Si tratta di un persistere a non voler vedere che può drasticamente portare alla completa rottura della nostra crepa emotiva, tanto da non essere più aggiustabile e trasformarsi materialmente in una camera a cielo aperto, come ci mostra l’artista modenese facendoci attraversare una nuova stanza, allagata da una pioggia continua che si abbatte su un piccolo letto, sopra dei libri dimenticati sui comodini.
Forse possiamo rimediare ammettendo la nostra “frattura”, magari scrivendola su un foglio, così veniamo invitati da un secondo attore a sederci in piccoli scrittoi per compiere questo atto di guarigione. Finiamo il nostro viaggio giungendo ad una consapevolezza emotiva, la quale ci permetterà di scavare dentro di noi. In quale modo farlo e con quali tempi è soggettivo, perché come disse Il celebre compositore Claude Debussy: «L’anima altrui è una foresta oscura dove bisogna camminare con precauzione».
Cristina Tacconi - Laboratorio "Per uno spettatore critico"