Intervistiamo Anna Peschke che al Festival Vie ha presentato in prima assoluta Faust - Una ricerca attraverso il linguaggio dell'Opera di Pechino, spettacolo prodotto da Ert. La regista ha lavorato in stretta collaborazione con la China National Peking Opera Company per fare incontrare Oriente e Occidente: il Faust di Goethe si veste dei codici dell'Opera di Pechino e mette in moto un processo di rimodernamento del linguaggio tradizionale cinese. La Peschke ci parla del suo percorso di mediazione e innovazione.
Ci sono diversi livelli di traduzione nella stesura del suo Faust. Che cosa si perde e cosa invece viene espresso della sua cultura d'origine?
La prima traduzione del Faust in cinese risale agli anni venti del Novecento. Siamo partiti dal testo tradotto in cinese ma abbiamo sostanzialmente riscritto l'opera, riadattando la lingua a seconda della nostra esigenza. Il sistema linguistico dell'Opera di Pechino, infatti, utilizza un cinese diverso da quello parlato: a volte richiede l'uso di rime, altre volte risulta decisamente poetico. Ho riassunto il Faust in una versione breve, per far capire al drammaturgo cinese cosa fosse essenziale della storia. La scrittura è avvenuta attraverso un lungo processo di mediazione non solo con il drammaturgo, ma anche con gli attori e con Xu Mengke, il direttore artistico.
Mi sono chiesta: che cosa è importante? Che cosa è ancora interessante oggi? Cos'è contemporaneo e cosa può funzionare nel contesto dell'Opera di Pechino?
Nel rapporto con Goethe era necessario compiere una scelta. Ci sono una serie di argomenti nel testo originale: ho voluto mantenere il conflitto dato dall'accrescimento del desiderio (percorrendo un sentiero di distruzione), il patto col diavolo, la tragica storia d'amore e il dramma di Margherita. A dire il vero ho lavorato su Margherita molto più di quanto non abbia fatto Goethe: abbiamo mostrato come Margherita venga esclusa dalla società, come soffra e arrivi a uccidere il suo bambino. Tutto questo nell'originale è solo raccontato, non recitato.
Per di più la storia d'amore è un motivo tipico dell'opera di Pechino, ma questo è vero anche per la tradizione europea.
Il sottotitolo dell'opera è Una ricerca attraverso il linguaggio dell'Opera di Pechino, che forse potrebbe funzionare addirittura come titolo...
Penso anche io che il sottotitolo possa funzionare come titolo della rappresentazione. Naturalmente ho provato a rendere l'opera più contemporanea. Abbiamo bisogno di innovazione, a questo fine ho intrapreso la collaborazione con la compagnia nazionale dell'Opera di Pechino: è la prima volta che un direttore di scena straniero riceve un invito a collaborare. In Cina gli spettatori sono anziani, i giovani non sono interessati a questo genere. La compagnia nazionale vorrebbe promuovere l'Opera e allo stesso tempo rinnovarla, vorrebbe insomma raggiungere le giovani generazioni. Idealmente lo spettacolo dovrebbe essere rappresentato nei teatri universitari, piuttosto che nelle istituzioni tradizionali.
Dicevo che era necessaria un'innovazione. In questo senso, ad esempio, ho introdotto una variazione all’interno del rigido sistema di ruoli tradizionali dell’Opera di Pechino, che solitamente prevede non più di quattro figure in scena che non variano mai: il ruolo maschile (Sheng), il ruolo maschile dal volto dipinto (Jing), il ruolo femminile (Dan) e il clown (Chou). Nel Faust invece assistiamo a un progressivo disfacimento del protagonista che da Sheng diventa Jing, non incarnando più la figura dell'eroe tipica del poema goethiana. Allo stesso modo, il personaggio di Mefistofele non è un selvaggio e imponente Jing, ma un personaggio divertente, atletico e molto attraente.
Pensa che lo spettacolo possa funzionare anche per un pubblico che non conosce l'Opera di Pechino?
In qualità di regista europea mi rendo conto che il pubblico non è abituato a questo genere teatrale. Il risultato finale è un lavoro di trattative con la parte cinese, sia a livello gestuale che nella struttura dell'opera: trattative che sono state compiute nel massimo rispetto di una diversa cultura e tradizione, rappresentata in scena anche dagli attori.
In generale la prima parte dell'opera funziona come invito allo spettatore europeo a entrare in questa cultura, a vincerne la distanza. La seconda parte è più tragica e si presume che lo spettatore si sia abituato a tale diverso linguaggio e possa immedesimarsi nella storia.
Come si è articolata la contaminazione tra la musica europea e i codici musicali dell'Opera di Pechino?
Pietro Valenti ha creato le giuste condizioni affinché potessimo collaborare con alcuni compositori italiani, anche se era inizialmente difficile immaginare un accostamento tra i suoni dell'Opera di Pechino e quelli europei. In un primo momento abbiamo però valutato l'idea di utilizzare brani della tradizione, come Beethoven. La collaborazione con Luigi Ceccarelli e Alessandro Cipriani ci ha indirizzati verso nuove prospettive: sono due compositori che nutrono un profondo rispetto per le musiche di altre tradizioni. Ero preoccupata che il contrasto con la musica elettronica risultasse provocatorio, invece in Cina hanno molto apprezzato, insomma la musica aggiungeva qualcosa in più alla loro stessa tradizione.
Di solito l'Opera di Pechino dispone di una grande orchestra, le percussioni sono fondamentali perché hanno una funzione illustrativa e di supporto. Alla percuss+ione, in questo caso, sono stati aggiunti dei livelli di basso elettrico, ad esempio per accompagnare e caratterizzare i movimenti di Margherita.
Notiamo un forte uso del colore rosso sia nei costumi che nella scenografia. Qual è il suo ruolo nella rappresentazione? Ha una valenza politica?
Chiunque sia stato in Cina avrà notato che il rosso è un colore pervasivo, presente dalla bandiera nazionale fino alle decorazioni; un vero e proprio simbolo della cultura cinese. Ha una valenza positiva, legato alla buona fortuna e alla felicità. Nel Faust ho utilizzato il rosso su personaggi e costumi per rimandare al sangue, come nella scena in cui Margherita uccide il suo bambino e ha le maniche tinte di rosso. Una valenza politica? No, non in questo contesto.
a cura di Elena Carletti e Claudia Masi - Laboratorio "Per uno spettatore critico"