Cosa vuol dire vedere, percepire?
Motus si dibatte nella viscosità di questa domanda rivisitando il King Arthur scritto da John Dryden nel 1684 e accompagnato, dal 1690, dalle musiche di Henry Purcell. La dramatick opera originale sovrapponeva il tema del rapporto amoroso tra Arthur e Emmeline a quello politico, costituendosi come rappresentazione allegorica e pluristratificata, votata allo spettacolare: se infatti da una parte il King Arthur rientrava nel genere ibrido della semi-opera – che giustapponeva parti recitate a inserti musicati e cantati – dall'altra veniva presentato come Restoration spectacular, forma barocca che costruiva atmosfere sensazionali attraverso l'uso di scenografie mobili, costumi sontuosi, coreografie e strabilianti effetti speciali. Sembra essere proprio il sapore barocco e parossistico dell'opera ad affascinare Motus: in tal caso la compagnia recupererebbe certi aspetti di una corrente culturale che da metà Novecento continua a trovare manifestazione anche oggi. Circa un ventennio fa Omar Calabrese, nel suo L'età neobarocca, faceva notare come la nostra contemporaneità fosse percorsa da un particolare gusto estetico, neobarocco appunto, per la valorizzazione di forme complesse caratterizzate dalla «perdita dell’interezza, della globalità, della sistematicità ordinata in cambio dell’instabilità, della polidimensionalità, della mutevolezza».
Così Motus, che il senso di instabilità e mutevolezza lo innesta nel suo stesso nome, si vota alla polidimensionalità trapiantando un genere seicentesco, per sua natura ibrido, nel nostro presente: allora i versi di Dryden si scontrano con la drammaturgia graffiante e attualizzata di Luca Scarlini e le foreste stregate della leggenda trovano contrappunto in panorami postindustriali, apocalittici, invasi dai graffiti. La regia di Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande si affianca all'interpretazione dell'ensemble Sezione Aurea, responsabile della riorchestrazione musicale, per mettere in forma un'opera sinestetica dove parola, suono, gesto e visione si intersecano: la semi-opera seicentesca viene quindi forzata e portata alle estreme conseguenze in una sperimentazione multimediale che è da anni cifra caratteristica dei lavori della compagnia riminese.
Il progetto, ambizioso, probabilmente non raggiunge piena espressione nella resa scenica, pur conservando una densità concettuale in potenza: il parossismo in più di un caso stenta a trovare armonioso incastro nell'incedere della rappresentazione; le stesse alternanze tra parti recitate e cantate spesso sembrano eludere il dialogo, relegando attori e cantanti in due diversi universi narrativi. In generale si ha l'impressione che il molteplice non rientri nelle maglie di un discorso del tutto organico e rischi di perdersi in un gioco di specchi.
Forse però Motus – ed è una domanda aperta – voleva ricreare esattamente questo senso di disorientamento labirintico. Forse, di conseguenza, non è un caso che la storia d'amore tra Emmeline (Silvia Calderoni), principessa non vedente, e Arthur (Glen Çaçi) si svolga su un'area scenica espansa, in linea con il formato polimorfo dell'opera: sul palco vediamo in primo piano un bosco oscuro fare eco a una foresta di leggii e strumenti musicali; una porta aperta introduce a un secondo spazio solo parzialmente visibile, dove la narrazione si frantuma e si discosta dallo sguardo dello spettatore; le ellissi visive vengono in certa misura colmate da una telecamera in presa diretta che segue i personaggi in scena e fuori scena e che è però in rappresentanza di un punto di vista connotato e parziale sulla vicenda. Le riprese proiettate in tempo reale su uno schermo e intervallate da sequenze preregistrate articolano quindi una narrazione doppia, non del tutto affidabile. Si sta tra lo smarrimento e il fraintendimento in un gioco di riflessi e rifrazioni amplificato dalla presenza di specchi ustori e anamorfici: ecco dunque che la visione si configura come analisi di un inganno. Cosa vuol dire vedere? Probabilmente dubitare, riflettere, indagare. Per Motus vedere è essere visti: «Esse est percipi», essere è essere percepiti, dicono citando Film di Beckett. Lo sguardo cieco e visionario di Emmeline a cui è affidata la narrazione diventa allora metafora del teatro stesso, primo e ultimo inganno possibile.
Elena Carletti - Laboratorio "Per uno spettatore critico"