El loco y la camisa è un fortunato spettacolo scritto e diretto da Nelson Valente con il suo Banfield Teatro Ensemble, compagnia che opera nella cosiddetta “provincia di Buenos Aires”, periferia assimilabile al nostro hinterland. Valente non fa ancora parte di quegli argentini noti anche nel circuito internazionale (Rafael Spregelburd, Federico Leon, Claudio Tolcachir, Daniel Veronese, Mariano Pensotti e altri) e anche il suo background differisce in parte da quello degli artisti del teatro indipendente rioplatense. Eppure il suo spettacolo ha avuto grande diffusione anche all'estero, essendo stato ospitato in numerosi festival internazionali e avendo raggiunto il ragguardevole traguardo delle 1000 repliche. Ne abbiamo parlato con Valente stesso, entrando insieme al regista “dentro all'opera”: una conversazione avvenuta al Teatro delle Passioni seduti sulla scena attorno al tavolo dal quale prende avvio il dialogo dei personaggi dello spettacolo. Un padre chino sul suo giornale, una madre in apparenza remissiva, una figlia in cerca della felicità e un figlio "loco", il cui dialogare privo di filtri è potenzialmente in grado di innescare conflitti e illuminare verità che si vorrebbero celare.
Ci puoi raccontare brevemente la storia della compagnia e il vostro metodo di lavoro?
La compagnia si è formata nel 1996 e fin dal principio il nostro approccio è stato simile a quello di un gruppo comunitario, dopodiché abbiamo gradualmente differenziato i nostri ruoli. La prima sede (inaugurata 4 anni dopo) era completamente autogestita: all'epoca io ero insegnante e con altri venti alunni abbiamo svolto tutti i lavori necessari per mettere in piedi un luogo di lavoro e per fare partire le attività. Oltre al teatro, da subito abbiamo pensato fosse necessario avere anche un bar per autofinanziarci. Con la crisi del 2001, l'Argentina ha assistito a un'esplosione di spazi autogestiti e, in generale, l'offerta culturale ha assunto una dimensione diciamo “di quartiere”, nel senso che tantissimi spazi sono nati in diverse zone decentrate. Di conseguenza anche la nostra attività ha avuto un grosso impulso, così ci siamo spostati in una ex-discoteca, allargando lo spettro delle nostre azioni: proiezioni cinematografiche, concerti jazz, una galleria d'arte e una scuola che oggi conta circa 400 iscritti.
Diversamente da altre compagnie, all'aspetto artistico noi dobbiamo affiancare quello gestionale, dunque la gestione degli spazi e la necessità di avere un ritorno economico, cercando di mantenere vivo anche un percorso di autoformazione. Potrei dire che i nostri modelli sono la compagnia di Kantor o di Pina Bausch: c'è un lavoro quotidiano di allenamento e prove, ma prendiamo lezioni anche con insegnanti esterni al gruppo. Forse per questo motivo la nostra produzione è estremamente diversificata a livello estetico e stilistico: siamo 4-5 registi che condividono lo stesso gruppo di attori e ognuno, pur in collaborazione con l'altro, cerca di seguire il proprio percorso personale.
Come nasce El loco y la camisa?
El loco y la camisa nasce dalla rielaborazione di materiali presenti in una sorta di “caffè-concerto” che proponiamo ogni fine settimana da 15 anni. Di volta in volta scegliamo un tema e produciamo degli spettacoli (per lo più umoristici) della durata di 4 ore, con intervallo; si tratta di una serie di sketch che il pubblico può seguire mentre spizzica e beve qualcosa. In una delle tante occasioni di prova con gli attori, un giorno stavamo lavorando sul tema della “menzogna”. È emerso del materiale che mi è sembrato potenzialmente valido e abbiamo deciso di svilupparlo in uno spettacolo compiuto. Gli sketch prodotti per il caffè-concerto costituiscono dunque l'embrione de El loco y la camisa, abbiamo ovviamente operato una selezione, dal momento che a nostra disposizione ci sono circa 800 differenti sketch e situazioni. Il tema specifico riguarda la “menzogna”, ma a livello più generale stiamo discutendo di uno spettacolo che racconta il contesto e i vincoli famigliari, questione che ricorre nei nostri lavori.
Da dove siete partiti per la scrittura del lavoro?
Nonostante lo spettacolo sia ricco di testo e infarcito di dialoghi, in realtà il punto di partenza è il corpo: all'inizio formiamo semplicemente uno “scheletro” dei movimenti che si svolgeranno in scena e successivamente li riempiamo con i dialoghi. Per questo motivo credo che il lavoro sia perfettamente comprensibile anche per chi non conosce la lingua.
Uno degli elementi che ci hanno colpito è infatti la naturalezza di recitazione degli attori. La finzione c'è ma in qualche modo “non si vede”. Come ottenete tale “leggerezza”?
Le prime prove aperte de El loco y la camisa si svolgevano in una stanza interna alla nostra struttura alla presenza di una ventina di spettatori. La stanza era una cucina vera e propria e gli spettatori si sedevano nello spazio in cui gli attori si muovevano e recitavano, seduti sullo stesso tavolo, sulla scena. L'idea era restituire la sensazione di quando si entra nello spazio privato di una famiglia: all'improvviso scoppia una lite e non sappiamo come comportarci. Da una parte si avverte l'impulso di intervenire ma dall'altra è una situazione che non ci riguarda completamente. Per gli attori, questo corrispondeva a fare come se gli spettatori fossero del tutto assenti, per quanto fisicamente si trovassero a volte a pochi centimetri di distanza. Se qualcuno li stava guardando in faccia la recitazione doveva restare la stessa, come se non ci fosse nessuno al loro fianco.
In generale, definirei lo spettacolo un melodramma, penso infatti che la natura degli accadimenti in scena nell'arco di un'ora e mezza sia molto distante dalla vita quotidiana... la recitazione adotta però un registro realista, pur con la presenza di alcune pause assolutamente “teatrali”.
La realtà raccontata sembra senza via d'uscita: ogni personaggio è rinchiuso nel suo mondo di menzogne, non si salva probabilmente nessuno se non “il loco”, tutti gli altri sono malvagi, probabilmente convinti di esserlo. Forse la madre è la sola che nutre dubbi, che non pare convinta di ciò che sta facendo...
La follia famigliare raccontata nello spettacolo rappresenta un po' la follia della società in cui viviamo, sono abbastanza pessimista a riguardo. Da questo punto di vista, la madre è in realtà quella che più di tutti mantiene vivo il sistema di menzogne e malvagità, perché alla fine occulta e frena la verità, è complice del marito, preserva dunque l'ingranaggio da possibili punti di rottura. È vero che le sue azioni sono a tratti più sincere, soprattutto quando sono tese a difendere il figlio matto. Ma anche questo lato del suo carattere è una sorta di valvola di sfogo, le azioni e le parole del "loco" fungono da decompressione in un'atmosfera di tensione... il giorno seguente tutto torna ad essere come prima. La figlia è forse la figura più “candida”, nel senso di incosciente, eppure sembra avviarsi anche lei verso lo stesso percorso della madre.
Il vostro teatro è situato nella periferia di Buenos Aires. Come si è evoluta, dal vostro osservatorio, l'esplosione di spazi autogestiti e la grande diffusione del teatro di cui ci hai parlato?
È un fenomeno che persiste, ancora in crescita e che ha creato nel contesto cittadino un'elevata quantità di proposte tra loro molto differenziate, ovviamente anche a livello qualitativo. Credo che ora, a Buenos Aires, esistano qualcosa come 300 sale di teatro. La nostra, come detto, è una realtà peculiare dal momento che non riceviamo alcun finanziamento pubblico, dunque le attività che facciamo devono badare al sostentamento. La maggior parte del pubblico proviene dalla nostra provincia, ma non mancano spettatori di altre zone, come il centro della città o il nord. Credo che ciò sia dovuto al ventaglio molto ampio delle nostre offerte: si può venire al Banfield Teatro Ensamble per assistere a uno spettacolo, per frequentare corsi o incontri con “maestri” del teatro argentino, oppure per passare un bel sabato sera con il “caffè-concerto”.
Per rispondere alla tua domanda in modo più concreto, aggiungo che le nostre produzioni raccontano quasi sempre la realtà quotidiana. Lo spettatore tende dunque a rispecchiarsi in ciò che vede e di conseguenza a interessarsene maggiormente. È un movimento doppio: il pubblico si ritrova in ciò che vede, duque persone di diverse provenienze sono invogliati a venire a teatro; dall'altro lato noi acquisiamo anche in questo modo maggiore possibilità di “osservarlo” e di "riportarlo" nei nostri spettacoli. Credo che tale ragionamento valga per il teatro argentino di Buenos Aires in generale.