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PER UNO SPETTATORE CRITICO, LABORATORIO DI GIORNALISMO > Forse tutti i draghi... Intervista a Berlin

Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Vie a Modena e Bologna dal 13 al 23 ottobre 2016



Dopo essere stati ospitati con lo stesso lavoro al festival Drodesera nel 2014, I BERLIN hanno presentato a Vie 2016 Perhaps All the Dragons…, terzo episodio (dopo Tagfish, 2010, e Land’s End, 2011) della serie Horror Vacui, storie vere che si dispiegano attorno a una tavola. Abbiamo incontrato il direttore artistico Yves Degryse, per saperne di più su questa ultima performance e sul processo creativo dei suoi ideatori.

Come nasce il gruppo BERLIN?

Abbiamo iniziato a lavorare insieme nel 2003, anche se io e Bart Baele ci conosciamo da quando avevamo quattordici anni. Bart si era trasferito a Amsterdam per studiare "Lights, Video and Sound Design" mentre io ho studiato all’Actors Studio. Quando ci siamo rincontrati, parlando di cosa ci piaceva e cosa non ci piaceva, abbiamo avuto l’idea di fondare BERLIN. Tutto ha avuto inizio con il progetto del ciclo sulle città, Holocene, che per adesso ha prodotto i lavori Jerusalem (2003), Iqaluit (2005), Bonanza (2006) e Moscow (2009). A Gerusalemme abbiamo vissuto per qualche tempo realizzando numerosi filmati. Una volta tornati, abbiamo deciso di realizzare Jerusalem con i video e le interviste raccolte. Il punto di partenza per i nostri lavori è sempre materiale documentario.

Come è composta la compagnia?

Io e Bart siamo i direttori artistici ed il nucleo di BERLIN, ne siamo anche i responsabili finanziari e alla produzione. Siamo una compagnia teatrale con una sua piccola struttura fissa ma, a seconda del progetto e se le caratteristiche di questo lo richiedono, coinvolgiamo altri professionisti provenienti da altri ambiti artistici. Io e Bart partiamo con un’idea e seguiamo percorsi diversi (fa il gesto di due linee curve che si allontanano e si incontrano, ripetutamente), per poi ritrovarci alla fine. Ci conosciamo da tanto tempo e non parliamo troppo; è tutto molto silenzioso ma quando ci sono collaboratori dobbiamo cercare di trovare delle parole, il silenzio non basta.

Usate molto materiale documentario, qual è la forza di una testimonianza in prima persona? Perché gente comune invece di attori?

A Gerusalemme, dopo aver realizzato tante interviste, abbiamo avuto l’idea di mettere insieme documentario e performance teatrale. Non si è mai trattato di interviste casuali, per strada, ma ci siamo sempre rivolti a persone specifiche, conosciute attraverso libri o giornali, c’è un motivo preciso dietro la scelta di ogni intervistato. Dopo poco e abbiamo capito che queste persone ci stavano raccontando storie davvero potenti: perché avremmo dovuto sostituirli con attori? Gli abitanti della città erano di fatto gli attori.

Quindi come scegliete chi intervistare?

Il nostro lavoro ci dà la possibilità di incontrare persone verso le quali siamo, prima di tutto, curiosi. A Gerusalemme, per esempio, abbiamo avuto la possibilità di parlare con alcuni scrittori fantastici, Meir Shalev tra gli altri. Siamo più interessati all’aspetto della conversazione vera e propria che a quello all’intervista e se le persone ci concedono meno di un'ora, noi rifiutiamo. Solo una volta ci è capitato di parlare con qualcuno per venti minuti; il primo ministro degli Inuit, e infatti non abbiamo utilizzato l’intervista. Si trattava di risposte standard, le solite dichiarazioni di un qualsiasi politico.

Perché è necessaria almeno un’ora?

Perché permette all’interlocutore di abbandonare il suo territorio abituale. Molte delle persone che scegliamo di intervistare sono abituate a parlare, a rilasciare dichiarazioni e i primi venti-trenta minuti sono, generalmente, la ripetizione di ciò che sono soliti dire. Ma non è questo ciò che cerchiamo. Anche l’ultimo progetto, ZVIZDAL [qui la nostra recensione], ne è un esempio: nel corso di cinque anni, siamo andati a Chernobyl molte volte con l’obiettivo di intervistare una coppia di anziani che si era rifiutata di lasciare i territori contaminati. Abbiamo accumulato 80 ore di materiale video ma, soprattutto, centinaia di ore di attesa nelle quali aspettavamo che uscissero dalla loro casa ed iniziassero a parlarci. Non ponevamo domande ma, semplicemente, sedevamo ed aspettavamo l’inizio di una conversazione vera, che annullasse le barriere e i ruoli solitamente costruiti dalla forma intervista.

Spesso luoghi specifici e “dimenticati” sono il punto di partenza dei vostri lavori. Come li scegliete e cosa vi attrae?

Per scegliere un luogo ci basiamo sull’intuizione e su un piano. A Gerusalemme abbiamo parlato con persone di entrambe le fazioni ed è stato frenetico, intenso. Dopo questa esperienza abbiamo scelto il Polo Nord, con i suoi territori isolati. Successivamente è stata la volta di Bonanza, un’area remotissima e poi Mosca che, ai tempi, era la città più cara al mondo. È stato un passo nel mondo della ricchezza e il contrasto tra le due città è stato molto stimolante. Siamo guidati dal desiderio di varcare sempre nuovi confini del nostr stesso percorso di ricerca, ma non scegliamo posti “estremi” di proposito. Per esempio, a Gerusalemme, non avremmo voluto finire negli scontri, volevamo solo intervistare un dottore ed è successo tutto nel giro di cinque minuti: sono arrivati i soldati e iniziati i problemi.

Perché vi chiamate BERLIN?

Perché la nostra è una serie di progetti legati a diverse città e quello a Berlino sarà il progetto finale dopo il quale la compagnia si scioglierà, ma non sappiamo esattamente quando avverrà. Sarà un progetto di docu-fiction nel quale diversi abitanti provenienti delle città in cui abbiamo lavorato verranno a Berlino e reciteranno insieme.

Cosa si intende con docu-fiction?

Significa che scriveremo una sceneggiatura basata sulle loro vite.

Si percepisce un forte contrasto nei vostri lavori tra senso di isolamento, dei luoghi e delle persone, e le possibilità di connessione e relazione con il resto del mondo.

Sì, penso che ciò avvenga soprattutto in Perhaps All the Dragons. È un lavoro frammentato, eclettico nel quale sono collegate le storie di trenta persone che abbiamo conosciuto durante i nostri viaggi e interviste. Ci siamo chiesti: cosa succederebbe se li facessimo sedere attorno allo stesso tavolo? È un po’ come essere al ristorante: mentre parli con la persona seduta di fronte a te, puoi captare frammenti di altre conversazioni e queste parole condizionano inevitabilmente quello che stai dicendo. Si crea quindi una connessione tra conversazioni diverse, apparentemente scollegate. I protagonisti di Perhaps All the Dragons non si sono mai incontrati fra loro nella vita reale ma qui sembra che si parlino e si rispondano; è una mescolanza fra l'isolamento della situazione intervista e la possibilità di connettersi con il resto del mondo. Per la costruzione della struttura infatti, Manu Siebens si è ispirato alle vecchie mappe geografiche: la sua forma, le sue linee vogliono assomigliare ad un planisfero.

Questo campione di trenta storie è rappresentativo di un’umanità più estesa?

Spero di no. Ne rappresenta solo una piccola parte, l’umanità è più complessa di queste trenta persone…forse. Il punto di partenza è stato il lungo titolo di Maria Rilke Perhaps All the Dragons… (si riferisce al titolo per esteso: «Forse tutti i draghi nelle nostre vite sono principesse che non attendono altro che vederci agire, solo una volta, con bellezza e coraggio»). Questa frase racconta del momento preciso in cui si prende il coraggio di decidere, agire e cambiare la propria vita o quella degli altri e nello spettacolo questo avviene su molti livelli differenti.

Queste trenta storie sono reali?

Sono tutte realmente accadute. Ne siamo venuti a conoscenza tramite TV, giornali, libri oppure incontrando queste persone durante i nostri tour.

Che cosa mette in connessione queste trenta storie, quale il filo conduttore?

È molto difficile rispondere. C’è una linea sottile, un punto di connessione nel contenuto di un’opera al quale una persona può relazionarsi. Durante gli spettacoli ci sono stati casi in cui gli spettatori parlavano con le persone sullo schermo o ricambiavano i loro saluti. È raro ma è successo, ed è molto bello! Sono sempre stupito del fatto che ci ostiniamo a usare la parola “messaggio” nel 2016 ma, d’altra parte, so molto bene quali cose volessimo dire. Non sono interessato a condividere il messaggio, o meglio l’intento, perché ciò ucciderebbe il ruolo dello spettatore. Quando vado a teatro, quando ho a che fare con qualsiasi lavoro artistico, mi piace sentire di aver scoperto e di aver visto qualcosa che nessun’altro ha visto. C’è una linea sottile, un punto di connessione nel contenuto di un’opera al quale una persona può relazionarsi.

Perché continuate a fare teatro e non cinema?

Veniamo dal teatro. La differenza più grande tra la proiezione di un film e un’istallazione è che lo spettatore deve relazionarsi a un luogo organizzato in un determinato modo, a uno spazio e non a uno schermo. Nel cinema il focus è stato scelto per te, c’è uno schermo e ci sono le diverse inquadrature mentre noi ci limitiamo a guidare l’attenzione dello spettatore. In Perhaps All the Dragons… lo spettatore può scegliere che storie seguire, così da realizzare un proprio montaggio. Vogliamo lasciare libertà allo spettatore. Inoltre, avere a che fare con molti schermi è una cosa che preferiamo tecnicamente, a livello di montaggio. Questa performance è un puzzle complicatissimo di trenta filmati e sarebbe troppo difficile condensare il lavoro in un filmato soltanto.

 

a cura di Altea Alessandrini

   

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