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PER UNO SPETTATORE CRITICO, LABORATORIO DI GIORNALISMO > Una disperazione che risveglia. Intervista a Gli Omini

Interviste, recensioni, approfondimenti, interventi dal laboratorio di giornalismo "Per uno spettatore critico", in diretta da Vie a Modena e Bologna dal 13 al 23 ottobre 2016



In occasione di Vie Festival abbiamo intervistato la compagnia toscana Gli Omini, attiva dal 2006 e vincitrice l'anno scorso del premio Rete Critica come migliore compagnia italiana. Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Luca e Giulia Zacchini ci parlano dei loro recenti spettacoli
L'Asta del Santo e Ci scusiamo per il disagio, oltre che del loro percorso.

Il vostro metodo di lavoro prevede una fase iniziale di ricerca quasi "antropologica" sul campo. Come viene inserito questo aspetto nei vostri spettacoli e specificatamente nei due che avete portato a Vie quest’anno?

Memoria del tempo presente è il nostro maggiore progetto-contenitore, che include molti nostri spettacoli e fonda il metodo di lavoro che usiamo di solito. Ci scusiamo per il disagio [qui la nostra recensione] è l’esito più significativo di tale metodo e nasce da un’indagine antropologica durata un mese e circoscritta alla stazione dei treni di Pistoia. Di solito conduciamo indagini che interessano un’area più vasta: un quartiere, un paese ma per un periodo più breve. Per produrre TAPPA (terzo spettacolo di Memoria del tempo presente, che continua a “debuttare” in giro per l’Italia dal 2010 cambiando totalmente a ogni replica) ci siamo imposti di raccogliere in una settimana le testimonianze della gente che vive in un luogo, e su quelle costruire lo spettacolo. Il fatto di avere così poco tempo per le prove e per imparare i dialoghi è un'ottima palestra attoriale: rende fondamentale lo scambio interno nel decidere cosa andrà in scena e come, spingendoci alla ricerca di una buona sintonia nella preparazione. È una sorpresa anche per noi vedere come verrà affrontato il personaggio in scena. A volte ci ispiriamo alle persone che incontriamo per strada, magari assemblando una voce che ci ha colpito con la gestualità di un'altra figura che abbiamo osservato. Capita di incontrare persone con caratterizzazioni talmente forti che riproposte a teatro rischiano di diventare macchiette e, perciò, vanno rielaborate. L'asta del Santo da questo punto di vista è un po' un’eccezione, poiché nasce dalla curiosità di alcuni di noi per le vite dei santi, racconti strabilianti che meritavano una messa in scena interattiva, nonché dalla volontà di costruire una forma che implicasse una forte e diretta relazione col pubblico.

Prima della fase di ricerca avete già un’idea dell’argomento che andrete a trattare?

Difficilmente abbiamo un’idea dello spettacolo prima di iniziare le ricerche. La famiglia campione [la nostra recensione] e alcuni altri spettacoli sono nati da canovacci che impostavano l’angolazione prescelta per il lavoro, senza però imporre un vero e proprio tema. In questo caso il canovaccio rende già chiari i tipi di personaggi che agiranno sulla scena e i rapporti che li collegheranno. Facendo TAPPA, invece, non abbiamo una struttura predefinita ma cerchiamo di restituire il nostro sguardo sul luogo, come se fosse un'istantanea. Per esempio, le nostre prime interviste prevedevano domande abbastanza precise mentre col tempo abbiamo capito che è meglio lasciare parlare liberamente le persone. Imponendo già una traccia sei costretto a scartare a priori molte testimonianze, abbiamo capito che la fretta di ottenere una risposta rende frettolosa la risposta stessa. Sperimentando e interrogandoci ci siamo dunque trovati tra le mani un vero e proprio metodo di lavoro. In Ci scusiamo per il disagio è stato l'incontro con quel luogo specifico, con quelle persone, che ha portato poi alla scelta del colore e degli argomenti che abbiamo montato per lo spettacolo. Quando abbiamo iniziato a lavorare non avevamo già in testa di focalizzarci sugli ultimi, sui disagiati, non siamo partiti con l'idea di mettere loro al centro del lavoro. 

Come reagiscono alla visione quelle stesse “comunità” di cui poi alla fine parlate nei vostri spettacoli?

Proporre spettacoli che parlano dei territori è un modo per avere più possibilità di presa sul pubblico. Le istituzioni locali prendono in considerazione la nostra proposta perché è un modo per dare voce alla cittadinanza, nonostante non ne esca per forza un'immagine edificante. Le persone sono in ogni caso coinvolte, in parte perché ci hanno visto durante quella settimana in giro per le loro piazze e i loro bar; in parte perché quello che sentono dire in scena rimanda a una frase, un’immagine del loro quotidiano. Infatti c’è un sempre del borbottio in sala, ma è motivato da interesse e partecipazione, non dalla disattenzione, la gente è “ha fame” di quello che sta sentendo. Tale dimensione dello stare in mezzo a una comunità ci ha molto cambiato, sia dal punto di vista drammaturgico che rispetto alla presenza sul palco. All'inizio partivamo molto più dalle nostre caratteristiche, lo sguardo era più cinico, volevamo essere dissacranti a tutti i costi, poi a un certo punto il lato umano ha prevalso, siamo diventati più empatici e meno “severi”. La disperazione ha preso il posto del cinismo, ma è una disperazione condita dall’ironia e dalla voglia di svegliarci e svegliare.

Il vostro teatro riserva una certa importanza all’improvvisazione...

La grande valvola di sfogo per quanto riguarda l'improvvisazione è L’Asta del Santo, perché negli altri spettacoli la struttura che prima o poi andiamo a fissare ci costringe di più. Anche L'Asta ha dei paletti, ma la dimensione della relazione diretta col pubblico la rende sempre diversa. Ci siamo sempre interrogati su come poter interagire con chi guarda, su quale potesse essere il pretesto per farlo, e grazie a una serie di coincidenze è venuto fuori tale formato di spettaclo "col mazzo di carte". In generale, tutti i lavori creati in pochissimo tempo spesso contengono improvvisazione. Può capitare che in scena uno di noi introduca una variazione imprevista, in quel caso tutti gli altri si adeguano. I personaggi in genere si delineano in modo definitivo sulla scena.

Parlateci un po’ de L’asta del Santo, dei disegni, del pubblico…

I disegni derivano tutti dalla raffigurazione che Luca Zacchini ha fatto di un pesce. Questa è poi diventata un uccello, poi una serie di animali strani, che sono confluiti in uno spettacolo per ragazzi (L’uovo e il pelo, 2011). Parallelamente abbiamo fatto ricerca sulla vita dei santi e, un po' per caso, abbiamo deciso di unire i due aspetti. L’argomento fa parte di una sfera sulla quale di solito "non si scherza" e il nostro intento non è stato dissacratorio. Le storie dei santi le riportiamo come sono, arricchendole giusto un po’. Ci ha stupito organizzare L’Asta appena fuori da una chiesa, in accordo col parroco. Quando anche il prete alla fine ti viene a dire che ha scoperto aspetti che non conosceva, non puoi che essere soddisfatto del tuo lavoro. Per quanto riguarda il pubblico la scelta è stata precisa: ognuno può scegliere se partecipare, ma non è costretto a diventare per forza una costante presenza del gioco. Lo spettacolo funziona lo stesso anche se non partecipi. Quello che ci interessa è coinvolgere il pubblico in una fase o in un'altra del lavoro ma soprattutto ci interessa la sua risposta nell'immediato, sentir ridere durante lo spettacolo è la prima risposta sincera che possiamo avere dalle persone.

Comicità e teatro contemporaneo. Cosa ne pensano gli Omini? Siete un’eccezione nel panorama artistico attuale?

Noi siamo serissimi pur con un teatro che fa divertire. Nel processo creativo siamo molto concentrati e discutiamo su ogni piccolo dettaglio, nonostante la nostra scelta artistica non preveda di portare serietà e pesantezza in scena. Cerchiamo di creare quello che ci piacerebbe vedere. L'ironia e la comicità sono due elementi che hanno caratterizzato il nostro lavoro sin dall’inizio. Abbiamo sempre cercato di far riflettere col sorriso e, col procedere del lavoro, ci siamo accorti che il nostro taglio si è rivelato molto più antropologico di quanto non ci saremmo aspettati, un taglio che nasce come risposta a delle domande che ci stavamo ponendo: dove andare a fare teatro? Perché fare teatro oggi? A chi rivolgersi e che linguaggio utilizzare? Rispetto alla serietà del teatro contemporaneo, per fortuna ci sono diversi gruppi teatrali che stimiamo, amici o compagni di lavoro, con uno sguardo anche comico, ironico, dissacrante, grottesco. I primi che mi vengono in mente sono i Sacchi di Sabbia, nostri vicini di casa, che da anni vanno in questa direzione. È forse lo sguardo di chi critica e organizza il teatro che è cambiato in questi anni. Fino a poco tempo fa sembrava fosse impossibile poter far ridere nel teatro di ricerca, è evidente guardando i programmi dei festival di teatro contemporaneo di sei, sette anni fa, era difficile trovare degli elementi tendenti al comico. Probabilmente anche perché, passato il periodo della rivista del dopoguerra, dove la comicità nasceva da una necessità di coesione per esseri umani che venivano da un percorsi diversi ed era dunque più autentica, con l'avvento della TV è sopraggiunta invece una comicità di stampo più basso. Il Varietà, frainteso, è diventato un brutto cabaret. Ecco dunque che la comicità ha iniziato a essere vista come qualcosa di non culturalmente elevato. Ci sono diversi esempi di artisti che hanno perseverato nel comico e sono stati poco considerati. 

Nell’Asta del Santo fate uso anche di forme proprie dell’intrattenimento. Come le avete gestite senza farvi piegare da esse?

Non ci siamo posti il problema dell'intrattenimento, perché sapevamo che non lo stavamo facendo. Con L'Asta del Santo non pensiamo di andare in scena con "lo spettacolo", con un equivalente dell’intrattenimento puro. Ci sembra di fornire anche altro e questo ci risulta anche dalle osservazioni chi ci guarda. Cerchiamo di rifuggire l'intrattenimento: nell'Asta ci sono dei mezzi o dei linguaggi che rimandano a quel mondo ma non è nostra intenzione sfruttare quel tipo di linguaggio, una bassa comicità che sfrutta il ridicolo. Volevamo giocare col pubblico. Negli altri spettacoli ci rapportiamo al pubblico prima, nel momento della costruzione degli spettacoli; nell'Asta, invece, c'è uno scambio costante tra attori e pubblico nel momento dell'esecuzione. Il pubblico ci stupisce tutte le volte, non si può mai sapere come reagisce; anche il modo di rilanciare l'offerta è sempre diverso. Alcuni passaggi fanno ridere e non ce lo saremmo mai aspettati. Con l’Asta oltretutto ci esibiamo ovunque, l'abbiamo fatta in spiaggia, con sfondo mare, in bocciofila, in chiesa. Adesso vogliamo rinnovarla un po’ scambiandoci i ruoli e introducendo nuovi santi.

Nel 2014 avete vinto il premio Enriquez come “compagnia d’innovazione” per la ricerca drammaturgica e l’impegno civile. Il vostro lavoro riflette un’idea abbastanza precisa della funzione politica e sociale del teatro…

Parlavamo recentemente di questo argomento anche all'università di Torino, dove siamo stati chiamati a descrivere il nostro metodo. Aspetto politico e arte dovrebbero essere sempre compenetrati e quando non succede crediamo ci sia poco teatro, in assoluto. Per noi l’attitudine di occuparci del sociale scaturisce in modo naturale dagli incontri che facciamo, dal vivere il nostro presente; ci sembra abbastanza palesata nel nostro metodo di lavoro. Andando a parlare con le persone i temi emergono naturalmente e il valore sociale è tutto qui. Deriva dalla ricerca, sporcandosi le mani insomma.

Cos’è il vagone-teatro?

È la “versione utopica” del “Progetto T”, elaborato con l'Associazione Teatrale Pistoiese, che prevede tre spettacoli. Ci scusiamo per il disagio e La corsa speciale li abbiamo già prodotti. Il secondo spettacolo doveva essere eseguito in treno, e invece non abbiamo neanche potuto trasmettere delle registrazioni. Si trattava di conversazioni fra un macchinista e un controllore, riscritte e reinterpretate da noi, ma al di là del contenuto è difficile poter trasmettere qualsiasi tipo di comunicazione che non sia di servizio. Recentemente avremmo voluto fare Ci scusiamo per il disagio in una stazione minore di Bologna e non è stato possibile. Il vagone-teatro è stata un’idea legata al “Progetto T” e dovrebbe essere il suo terzo capitolo. Si tratta di un vagone merci riadattato, che contenga il necessario per allestire spettacoli. L’idea era di farlo viaggiare e, dopo averlo impiegato per i nostri spettacoli, lasciarlo a disposizione di altre compagnie teatrali. Come un vecchio carrozzone dei comici dell’arte, però su rotaie. Gli spettacoli comunque si farebbero a treno fermo. Ad oggi ci sono ancora tante cose da risolvere, diciamo che il vagone si sta muovendo lentamente. Bisogna capire se l'utopia sarà realizzabile completamente o solo in parte. 

 a cura di Alessandro Carraro
 

         

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Santarcangelo · 13
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SANTARCANGELO •12
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Arca Puccini - Musica per combinazione
Rock indipendente italiano e internazionale