Tristesses è uno spettacolo che ruota attorno ad alcuni nodi centrali per la comprensione dei rapporti tra popoli e potere. Dopo il successo al Festival d’Avignone, l’ultimo lavoro dell’attrice e regista belga Anne-Cécile Vandalem è stato presentato in prima nazionale per Vie Festival 2016 a Modena. Seguendo il filo che lega i suoi ultimi lavori, l’artista affronta spietatamente la questione della possibilità di individui “comuni” di agire su un reale che, di fatto, non controllano.
Il sipario si apre su una scenografia che ricorda un teatro di posa per la preparazione di un film: quattro tipiche case scandinave e luci soffuse trasportano gli spettatori in un’isoletta della Danimarca. Tre personaggi, che potrebbero andar bene per un film di Roy Andersson (regista svedese conosciuto per commedie dai toni grotteschi), si muovono muti da una parte all’altra del palco, suonando degli strumenti a corda o un pianoforte. Ricordano gli spiriti dei morti che anticamente si pensava proteggessero la casa e i familiari. Su uno schermo in alto scorrono le riprese di ciò che avviene in una delle case: quattro persone fanno un gioco da tavolo ma l’atmosfera rivela da subito un quadro d’enorme incomunicabilità e frustrazione. Il suicidio di una degli otto rimasti sull’isola apre le porte alla leader di un partito populista, ultra-nazionalista, simbolo di un potere che mira ad assorbire tutto e dissimula il proprio ruolo distruttivo fingendo di proteggere la comunità. Martha, questo il suo nome, deve convincere gli abitanti a vendere i mattatoi ormai in disuso per fondare una casa di produzione di film propaganda. Nessuno ha la forza di ribellarsi, la maggior parte di loro si mostra ossequiosa, come facevano i popoli superstiziosi con gli dei che temevano, sperando di suscitare la simpatia del potere più forte. La Vandalem, che veste i panni di Martha, costruisce un personaggio dalla spietata razionalità, che agisce come un burattinaio. Le sue parole rimandano al Leviatano di Hobbes, citato più volte: l’autorità è necessaria, bisogna in parte rinunciare alla propria libertà e autodeterminazione per sopravvivere, in particolar modo in tempi di minacce imminenti come quelli attuali. È un potere che si è insinuato dappertutto, che crea una rete di forze invisibili ai soggetti sottomessi. I personaggi sono traumatizzati, presi ognuno dalla propria tragedia personale che non riesce a convertirsi in discorso comune. Nemmeno evocare i ricordi ha più senso, anche tra loro le relazioni ripetono la stessa dinamica di dominio e di menzogna. In Tristesses chi comanda neutralizza ogni elemento che potrebbe portare alla deriva. Le due bambine sono le uniche che, in frammenti sparsi nel precipitarsi degli eventi tentano, per un momento, una via alternativa. Ma la condanna è inevitabile e, come gli altri, desistono. La sensazione di soffocamento dovuta all’impossibilità di modificare la realtà è accentuata dall’uso delle telecamere che, riprendendo gli interni, limitano il nostro sguardo a traiettorie prestabilite, imprigionando l’azione.
L’unica via possibile sembra essere quella dell’estremo gesto finale, raggiunto alla fine quasi per caso, senza eroismi di alcun tipo. L’ultra realismo nella costruzione dello spettacolo rimanda più al cinema che al teatro, così come la recitazione degli attori, tutti sempre rigorosamente presenti sulla scena. I piani della rappresentazione scivolano spesso uno sull’altro rivelando una finzione tesa al massimo che gioca con se stessa come se fosse un quadro di Magritte. Alla fine si annuncia che sarà tratto un film dagli eventi di cui siamo testimoni. Un cameraman nel frattempo è apparso sul palco, ricevendo l’abbraccio disperato di una delle donne che abitano l’isola. Che ruolo ha? Quello che abbiamo appena visto era reale per i personaggi? O era già il set del film? I personaggi sono attori? Le domande non trovano risposta. Tristesses parla del destino dei singoli ingoiato dal mostro della Storia, che trova un senso, forse, solo come narrazione, testimonianza.