Una conversazione con il direttore di ERT per scoprire le linee poetiche della tredicesima edizione del festival, una riflessione sul ruolo del teatro, sul rapporto con gli spettatori e sui giovani gruppi
Questa è la sua prima direzione del Festival Vie, dopo gli anni di Pietro Valenti. Che cosa significa per lei questa eredità?
Si tratta di un segmento importante della vita di ERT e dell'eredità che ho assunto. Vie nasce come un festival che non ha una focalizzazione tematica in senso stretto, ma ha una precisa identità culturale e teatrale: si propone di mappare l'emergenza del nuovo, sia sulla scena nazionale che internazionale. Spesso “nuovo” diventa sinonimo di “stile”; io lo definirei piuttosto lo scostamento o l’evoluzione rispetto a ciò che è stato, quindi qualcosa che già porta con sé il concetto di tradizione. Proprio per questo mi fa piacere parlare di eredità: visto che il festival Vie è consacrato alla novità, deve fare i conti con il passato, perché soltanto lì può prendere corpo il nuovo.
Molti spettacoli presentano tematiche forti. Quello degli argomenti è stato un criterio di selezione?
Sicuramente c’è una continuità tematica, ma non è da questa che siamo partiti. Il criterio che ha guidato la costruzione del festival è stato delineare il ripensamento dei linguaggi teatrali, mostrandone le diverse possibilità: artisti come Julie Ann Anzilotti, CollettivO CineticO e Arkadi Zaides mostrano come la coreografia possa influnzare la prassi registica; oppure i Dead Centre ricercano le radici drammaturgiche della tradizione europea interrogando Cechov; o, sempre in questo contesto, Theodoros Terzopoulos propone un approccio magistrale alla poesia; infine Pietro Babina, Sotterraneo e Fanny&Alexander/Ateliersì reintepretano la drammaturgia a partire da monumenti della letteratura antichi o contemporanei, chiedendosi quale sia l’influenza delle nuove tecnologie.
Il festival coinvolge varie sedi e diverse comunità di riferimento. Come si rapporta Vie con il suo pubblico?
Il rapporto col pubblico ha segnato la ricerca artistica dell’ultimo secolo. Sotto l'urto delle avanguardie storiche, si è infatti prodotta un'esplosione di linguaggi che ha compromesso la relazione tra lo spettatore e l'oggetto dello sguardo. Si sono generati dei sistemi di sfiducia reciproca che hanno complicato la fruizione teatrale e il teatro, soprattutto in questo paese, è troppo spesso diventato una sorta di “orpello”. Vie vuole allora essere un’occasione per ricucire tale relazione e per ripristinare sistemi di dialogo fra artisti e pubblico, perché il teatro ha una funzione politica, è una forma di educazione al vivere insieme. Non solo: se mi si chiedesse che cos'è per me l'Europa, io direi quel pezzo di terra in cui se dico “Edipo”, tutti sanno di cosa sto parlando. Il teatro, in questo senso, è stato uno dei cementi fondativi dell'identità culturale europea.
Vie da sempre è anche occasione per incontrare gruppi giovani...
Quando parlo di un festival sull’emergenza del nuovo è chiaro che la componente giovane sia fondamentale. Non so che destino prenderà il teatro contemporaneo, però è evidente che qualcosa sta cambiando e il tema generazionale sta diventando sempre più urgente. Penso a fenomeni diversi fra loro ma accomunati da un’istanza “giovanile”: il Festival 20 30 di Kepler-452 a Bologna, Dominio pubblico a Roma, Trasparenze a Modena. La coscienza generazionale può essere una forza perché mette insieme delle energie, ma dobbiamo fare attenzione a non trasformarla in una prigione autoreferenziale. Luca Ronconi diceva che la sua grande fortuna è stata quella di «non essersi chiuso nella sua generazione». È importante dunque che emerga una generazione di nuovi registi ma mantenendo un sistema di relazioni ampio e trasversale.
di Ornella Giua e Sofia Longhini, laboratorio Per uno spettatore critico