È sempre una questione di tempo, qualcosa che si vuole finisca o persista. Ancora. Vi siete mai interrogati sulla parola ancora? Come una gabbia da cui evadere o in cui lasciarsi prigionieri, come se il senso assoluto fosse vivere lì, l’esclusività della schiavitù. Il regista greco Theodoros Terzopoulus prova a rappresentarla, lascia che il suo dramma venga raccontato da Sophia Hill e Antonis Myriagkos, in questo spettacolo che non poteva che chiamarsi Encore. Lasciamoci travolgere dagli ansimi e dai sussulti degli attori, sporchiamoci. Qualcuno ha percepito questa necessità? Perché la forza evocativa dei due performer non risparmia nessuno. Non c’è inizio né fine, perché la parola ancora non è nata per mettere un punto. È uno spettacolo che riprende una conversazione in sospeso, è la messa in scena del tormento consumato sull’unica sceneggiatura possibile: sul pavimento una croce illuminata su cui gli attori perdono qualsiasi inibizione. È il momento della crocifissione, finalmente e encore… I passi felpati con cui i due si avvicinano l’uno all’altro, lo sguardo famelico su visi statuari, il nero dei loro vestiti, la trasparenza della camicia di lei, tutte proiezioni di una sensualità estremizzata, il contatto con la realtà completamente reciso. Sincronizzati quasi simmetrici i due attori si avviano ai lati della croce per impugnare le spade, due a testa, simbolo di un dolore fisico, presagio che qualcosa sanguinerà. Le lame che si incrociano al centro della croce creano una tensione al limite dell’esasperazione, un climax crescente di grida e tentativi di parola che avvolge pungente la sala. Come una sferzata improvvisa e liberatoria si eleva il canto dell’attrice, le cui note ricordano quelle di un salmo evangelico. Eccoci dunque in una dimensione sacrale dentro cui il demoniaco non viene esorcizzato, ma invocato. Ma ricordiamoci che qui in Encore niente ha una fine e tutto prima o poi continua. Le lame asserragliate da morsi spasmodici, avanti e indietro convulsamente, mentre la testa trema e il corpo anche, fin quando il morso tramonta in un bacio sul dorso della mano di colei che lo sta privando di se stesso. È a ritmo di tango che i corpi si fanno supporto di una carnalità feroce: gambe avvinghiate sotto lo slancio di una pressione crescente, gambe lontane il tempo di capire che encore... L’abnegazione totale sembra diventare l’unico rimedio per vivere intensamente, l’illusione che se qualcosa sanguina appare più vera. E ora ditemi: che cosa significa per voi ancora?
Carmen Zaira Torretta, Laboratorio Per uno spettatore critico