Al Teatro delle Passioni, nel suo Encore Terzopoulos predispone uno spazio piano, elementare, cartesiano: due assi perpendicolari tengono insieme gli estremi ed esplorano la scena in estensione e profondità. Quali sono le coordinate dell'amore, quali quelle dello scontro? Tra un uomo e una donna si proiettano linee dritte, angoli retti, profili taglienti e un arco immaginario, teso nel loro incessante guardarsi. Figure umane di attori – insieme rappresentanti della specie homo e allegorie di una forza imperiosa e irresistibile – erompono infine in un «Encore» pieno di voluttà che li risveglia e il mistero si spalanca nella rivelazione dei corpi, ancora.
Lungo questo ponte a croce, bianco di luce sull'abisso, il regista dispiega il percorso obbligato dell'eterna alternanza di attrazione e repulsione. Eros e Polemos, unione e dissoluzione, principio cosmico, prima della parola, prima dell'uomo. Si tratta di un’esplorazione dell’archetipico, del primordiale, del metafisico?
I due attori sembrano abbandonarsi totalmente alla duplice pulsione, offrendo corpo e voce a un invasamento che annulla la volontà individuale e spazza via la razionalità del logos, disarticola il senso restituendo alla parola la vibrazione evocativa dell'origine. «Sangue. Le parole bevono sangue... Éma, pséma. Sangue, bugia», in una sequenza convulsa le parole pulsano in uno sforzo a strappi per ricostituire l’unità dell’androgino primordiale. L'emblema dell’unione originaria è tuttavia necessario quanto impossibile, riducendo così il movimento d'attrazione in un groviglio abortito, fallimento terribile e perturbante, in un climax che estenua eppure ripete «Encore. Encore, Encore!» prima di ogni nuova sequenza.
L'insistenza a ricomporre questa diade irresolubile abbandona allora un piano meramente simbolico, una dimensione metafisica atemporale e si manifesta piuttosto nella forma di una fenomenologia, in cui la forza caotica e ordinatrice dell'eterna congiunzione e disgiunzione di tutte le cose attraversa l'atavico, per incarnarsi nell'uomo e nella molteplicità di escamotages codificati nelle sue tecniche.
Ecco il senso delle lame affilate impugnate dagli attori: simboli di offesa, di violenza certo, ma che non appartengono a un primordiale stato di natura; esse sono armi, forgiate con perizia dalla mano sapiente di un fabbro per l'arte sempre nuova della guerra. Compongono disegni sinuosi, figure marziali raffinate da una pratica millenaria, richiamano tecniche diverse, eppure tutte messe a punto per arginare o informare la veemenza del doppio principio cosmico. Davanti a Polemos si apprestano tecniche di combattimento, di tortura, di difesa, in cui piacere e dolore si confondono mentre le lame scorrono, sfiorano, pungono le carni dell'altro. A Eros, per converso, rispondono tecniche di seduzione, altrettanto elaborate. Lo sguardo si fa parola suadente, evocativa, si fa canzone rinascimentale elisabettiana: la pulsione d'amore non si dà cieca e dirompente, si veicola attraverso rigidi codici formali, segue uno stile, un regime com'è l'amor cortese.
Attrazione e repulsione si dimostrano irrimediabilmente intrecciate alle tecniche dell'uomo, le prime potendosi esprimere solo attraverso le ultime. La legge universale nella sua alternanza non trova esegesi possibile se non attraverso la molteplicità regimentata delle arti, la disciplina dei corpi, il perfezionamento di ogni gesto tecnico; ciononostante essa sfugge ad una comprensione integrale, genera sempre uno scarto e proprio di fronte ad esso si infrange lo sforzo prometeico. Le stesse tecniche che avrebbero dovuto irreggimentare la pulsione, ugualmente e forse più crudelmente consumano chi le impersona, riducendo l'uomo a frammenti di discorso, a schegge di suono sconnesso, mostruoso nella sua incapacità di produrre nuova armonia. Quanto apollineo nel dionisiaco, fino all'inceppo, fino all'ennesimo scacco: un ululato, un latrato, uno schiocco di lingua, riemerge Dioniso e dice: «Encore».
Gianluca Poggi, laboratorio Per uno spettatore critico