ph Claudia Marini
Come reagisce il pubblico del ventunesimo secolo di fronte a uno spettacolo ispirato a un racconto biblico? E come può uno spettacolo del genere aprirsi con una partita di tennis? Il rumore delle palline, i corpi bui di fronte a uno schermo sullo sfondo che rappresenta il campo, una rete e una partita da vincere. O da giocare? È così che Il libro di Giobbe ha inizio. La rappresentazione, liberamente ispirata all’omonimo libro biblico, è l’ultima opera del regista Pietro Babina, scritta insieme al giovane drammaturgo Emanuele Aldrovandi. Sul palco si muovono sei attori, tra cui spicca il talento di Leonardo Capuano, nelle vesti del protagonista. Nella scena semibuia, due attori si muovono simulando una partita mentre, poco più in là, una giornalista inscena una dettagliata telecronaca che i due seguono fedelmente con i loro gesti. L’avversario e Giobbe: 6-1, 6-0, 6-0. Battuto, anzi stracciato. Chiara la metafora della partita con la vita che rimanda a Match point di Woody Allen. La sconfitta però fa male, scatena in Giobbe perdente un senso di frustrazione che subito prende rabbiosa voce nell’intervista post partita. La scena è accompagnata da uno schermo sullo sfondo che ci proietta dentro la dimensione di un videogioco, il parallelismo tra artificio e realtà prende poi vie inaspettate quando la finzione tecnologica si va a mischiare con la realtà a tal punto da non permettere più allo spettatore di distinguere i due piani. Una scelta così marcata nella drammaturgia della scena, però, stride con la recitazione che a tratti pare convenzionale, legata a un tempo passato e dunque estranea alla resa contemporanea dello spettacolo. Perché? Forse quello che arriva allo spettatore, di fronte a questa contraddizione, è la presa di coscienza del vero dramma del nostro tempo (e questo si collega anche al contrasto realtà e videogioco): viviamo in un’altalenante dualismo tra noi stessi e il nostro doppio, noi e il “Dio” che ci siamo creati, tra verità e finzione, relazioni dirette e filtrate dai nostri dispositivi tecnologici.
Qui Giobbe è un uomo che non sa accettare che il motore degli avvenimenti sia il semplice caso. Quando, spinto dalla moglie, decide di invitare a cena l’avversario e la giornalista, subito si fanno chiari il suo divario interiore e il suo senso di inadeguatezza anche nei confronti della famiglia che lo ama e ammira. In contrasto con il testo biblico, però, qui la moglie non lo spinge a maledire Dio ma a ricordare a lui e a tutti noi che, in un’epoca volta al nichilismo come questa, l’importante non è l’oggetto dell’amore, ma l’azione in sé, il coraggio di protendersi, non importa verso dove, perché non esercitarsi all’amore e alla compassione atrofizza l’animo umano. D’altra parte, il rapporto con il figlio culmina in una scena fortemente simbolica che richiama il sacrificio di Isacco: Giobbe che tenta di ucciderlo. Una sorta di Edipo al contrario? Forse perché capisce che suo figlio, con cui ha una relazione controversa e travagliata, sembra avere ancora la tenacia e la determinazione che lui, frustrato dal passare del tempo, ha perduto.
Nel corso dello spettacolo, inoltre, più volte il protagonista cita un’incidente avvenuto anni addietro con il figlio, di cui lo stesso però non ricorda nulla. La domanda rimane sospesa: è frutto del delirio di Giobbe o lui è l’unico davvero, dopo un periodo di rimozione, ad aver risvegliato il ricordo di questo traumatico evento? Una cosa è certa: siamo di fronte ad un Giobbe atavico che non sa accettare il dolore e la morte nella sua insensatezza e violenza. Un Giobbe perso ai piedi di se stesso.
Sofia Longhini, laboratorio Per uno spettatore critico