Il Nuovo hotel del Porto è in una piccola via del centro. Come spesso sono gli alberghi è un luogo alienante, transitorio, che fa di tutto per essere casa ma che casa non sarà mai. «Camera 120, primo piano». Ad accogliermi c’è Renato Bosetti, attore di questo spettacolo Private eye - Roberta va in hotel. Parlare con lui è come chiacchierare con un vecchio amico, a tal punto che inizio a chiedermi se sia davvero questo lo spettacolo. Come se avesse letto il filo dei miei pensieri, inizia a raccontare di quando, anni prima, visse cinque settimane in un hotel a Melbourne (Australia) con la compagna Roberta Cuocolo. È a lei che viene l’idea: «Se mi facessi inseguire da un investigatore privato? Sarebbe un modo diverso per stare insieme, visti dagli occhi di un terzo». Lui accetta e ne ingaggia uno: l’investigatore non sa che la donna è a conoscenza del progetto e lei non sa chi sia lui fisicamente. Ecco che sul computer inizia un video che ritrae Roberta spiata in giro per la città. Renato racconta che all’inizio nessuno dei due sapeva che da tutto questo sarebbe nato uno spettacolo. A catturare la mia attenzione, una scena in cui Roberta viene ripresa in un lungo abito nero in un club BDSM. Renato spiega: «Lei sapeva che avrei visto quel video e questo le ha permesso di sentirsi libera, di esibirsi, come fosse uno spettacolo per me. Ora scusami, ma devo fare una chiamata». Si allontana e al telefono sussurra con fare complice: «Tu sei come me», ed è come se riuscissi a percepirlo sorridere. Ho improvvisamente la netta sensazione di essere ripresa da una telecamera nascosta, un po’ come se per un attimo fossi io Roberta. Una volta tornato, mi allunga delle chiavi: «Camera 240, entra senza bussare». Così faccio. Lì c’è una Roberta negli stessi panni con cui era vestita nel video. Si volta con fare aggressivo, come fosse stata colta in fallo: «Chi sei? Perché non hai bussato?» mi accusa. Mi allunga, d’improvviso, un bicchiere di whiskey che io bevo un po’ imbarazzata e poi mi ordina di sedermi. Nel suo atteggiamento sensuale e provocatorio, seduta ai bordi del letto, Roberta mi guarda dritto negli occhi: «Hai mai voluto spiare qualcuno o ti sei mai sentita attratta dall’idea di essere spiata?»: non so dove sono e non capisco cosa succede. Lei, disinvolta, prende una cintura di pelle e mi chiede di aiutarla a mettersela. Sono turbata (e glielo dico), sospesa in uno spazio temporale, un sogno, un universo parallelo in cui la Bologna quotidiana non esiste più. Mi avvicino titubante all’armadio specchiato dove lei è appoggiata e l’aiuto. Dopo di che lei si stende sul letto matrimoniale e mi chiede di raggiungerla. Seguo meccanica i suoi gesti, l’ascolto mentre parla dei suoi sogni e delle sue paure: ora è umana. Non è la Roberta seduttrice, attrice, non è più nemmeno la compagna di Renato. Quella donna che mi guarda negli occhi, adesso, è soltanto Roberta. Si alza lentamente e apre l’anta dell’armadio specchiato, lo stesso davanti al quale poco prima l’avevo aiutata a mettersi quella cintura che ora stona così tanto su di lei. Con grande sorpresa, c’è uno sgabello di vimini ad attendermi: «Entra, fai silenzio»: seguo ancora una volta i suoi ordini come un soldatino ubbidiente, in un gioco di potere a cui non so sottrarmi. Da lì dentro, scopro che quello specchio in realtà è un vetro oscurato che permette di vedere perfettamente quello che succede fuori. Chiusa la mia anta, Roberta apre quella vicino alla mia e un uomo panciuto sulla sessantina la ringrazia uscendo dalla stanza: ha visto tutto, noi bere whiskey, parlare della paura stese lì sul letto. Ha spiato tutto. Una volta uscito, in un attimo Roberta si mette un vestito leggero rosa perla. Pura come una dea, è incredibile sia la stessa di pochi minuti prima. Bussano alla porta e a entrare questa volta è una ventenne timida e molto educata. Roberta le offre un bicchiere d’acqua e si siede accanto a lei. Pur sempre dentro il personaggio, inizia a narrare di un sogno che dice fare frequentemente: una donna con un lungo nero di latex che intuisco essere la donna di qualche minuto prima, ma come se fosse un'altra da lei. Questa volta l’attrice dà vita allo stesso gioco di sintonia e inquietudine, ma passando per la dolcezza. Alla fine però, finisce per sottoporre anche la terza spettatrice alla prigione dell’armadio. Ora sono io ad uscire dall’anta, diventando per la ragazza quello che poco prima il sessantenne panciuto è stato per me: una spia, una ladra d’intimità. In quel delirio interiore, nello svelamento del suo inconscio, Roberta rende i suoi ospiti complici di quell’artificio, quasi tradendoli, violando la sacralità del sogno in cui li fa entrare, mostrando loro che quello che percepiscono come realtà, per altri è pura finzione, in un gioco di scatole cinesi senza fine. Ma d’altra parte, c’è forse un teatro che non attraversa questa dimensione di finzione per palesarsi al suo pubblico?
Sofia Longhini, laboratorio Per uno spettatore critico