Più che uno spettacolo, Giuramenti è una liturgia lirica, un viaggio nel sogno. Con quest’ultimo lavoro del Teatro Valdoca siamo di fronte a un mantra di corpi, di voci, di presenze timide e al contempo violente che abitano lo spazio. Ad aprire lo spettacolo, c’è l’energia di un coro di giovani ventenni seduti in cerchio. Nonostante l’atmosfera mistica e sacrale, nella scenografia nessuna pretesa di imponenza ma soltanto pochi elementi essenziali: oggetti in legno come canne e rami. Un po’ come se il teatro fosse vuoto (forse a dirci che lo spettacolo è un dialogo in primis con se stessi), le poltrone della platea non sono occupate dagli spettatori ma interamente ricoperte da quattro grandi teli bianchi sui quali viene proiettata l’immagine di acqua che scorre: un ambiente naturale che probabilmente vuole richiamare quello in cui il regista Cesare Ronconi, la drammaturga Mariangela Gualtieri e la coreografa Laura Palladino si sono preparati insieme agli undici attori ora in scena. Sì, perché questo spettacolo ha alle spalle un training fisico molto particolare avvenuto interamente nel bosco di Mondaino in cui per tre mesi la compagnia si è recata ogni mattina: sole, pioggia, vento. Questo contatto con la natura, con «quel pezzo di mondo perfetto in cui è la terra a pensarci», per riportare le parole della stessa Gualtieri, è chiaramente percepibile in tutta la messa in scena, nei gesti dei corpi che formano il coro, nel loro modo di muoversi e di entrare in relazione con altri esseri umani e con i luoghi che solcano. Due sono gli aspetti che rendono questo coro così meravigliosamente incisivo: da un lato la chiara espressione dell’individualità dei componenti e dall’altro la potenza celata dietro la loro coesione. Infatti, se ci sono vari assoli a dare singolo risalto alle varie figure, d’altro canto rimane comunque ben percepibile la loro unione, quel senso di partecipazione così come lo intendevano gli antichi greci con cui chiaramente questo spettacolo è in dialogo profondo. Si fa forte e deciso anche il contatto con il divino, con forze superiori e cosmiche: «Dio è un bambino, ti dico. Non vede, non sa, tutto gli sembra un gioco» sussurra una voce materna, quasi a volerci far calare in un circuito di energie in cui non è mai esistito un senso della colpa e del peccato distruttore e distruttivo.
È in questo gioco di forze che l’umano si fonde, o meglio si immerge, soprattutto grazie all’elemento del canto: lo spettatore, un po’ come rapito dal canto delle Sirene, viene preso per mano e condotto in questa dimensione nuova e fluida. Non c’è tuttavia un ritorno nostalgico a un passato primitivo, una critica all’odierna civilizzazione né la necessità di farsi vanto della presa di coscienza che qualcosa è perduto. È anzi chiara la volontà di risvegliare il “bosco” che alberga nell’animo di tutti noi. Perché lui è lì e questo spettacolo prova a insegnarci proprio ad avere il coraggio di compiere quell’atto violento in collisione con il corso del destino: a giurare. Assieme a una drammaturgia di una genuinità e una magia di cui solo parole come quelle della Gualtieri sono capaci, l’intero spettacolo vive sullo slancio di una regia potentissima e curata nei minimi dettagli, senza però che questo renda artefatta la resa. Nonostante qualche imprecisione recitativa, gli attori si rivelano fin da subito ben integrati in questo impianto minuziosamente strutturato. E, forse, è proprio dietro a una tale “mancata perfezione” che si cela il senso del nostro “bosco”, un luogo scomposto, disordinato, caotico che non vuole rispondere alle simmetrie dei crocevia urbani ma che si fa libero portavoce della pura e sacra verità che non può che essere così: scomposta, disordinata, caotica. Ed è così che il Teatro Valdoca infine indaga il presente nella sua irriducibile bellezza e violenza.
Sofia Longhini
laboratorio Per uno spettatore critico