Il regista georgiano Tsuladze ha presentato al Vie Festival Begalut - In esilio, uno spettacolo sulla diaspora che ha coinvolto il popolo ebraico negli anni ’30. Protagoniste due famiglie di rango sociale differente che condividono la loro quotidianità, inizialmente difendendo le proprie diversità, poi intrecciando le loro storie fra matrimoni, figli, fughe d’amore e incomprensioni. Partendo da questi grovigli famigliari, Begalut ci offre uno spaccato della realtà socio-politica del tempo. Sul palco nessun dialogo: solo visi, espressioni, corpi in movimento e mugugni, il tutto scandito da ritmi allegri e accompagnato dalle musiche di Vakhtang Kakhidze o dalla ninnananna ebraica di Neka Sebiskveradze. Ogni attore in scena disegna una personalità unica, spingendo lo spettatore a parteggiare con le intime ragioni che la muovono. Il tema dell’esilio passa in secondo piano, la cultura ebraica diviene un semplice sfondo per far emergere come protagonista un profondo “senso di umanità”. La vita quotidiana e le sue relazioni verranno improvvisamente sconvolte dall’ingresso di una terza famiglia. I nuovi componenti di appartenenza cristiano-ortodossa, inizialmente buoni vicini e compagni di festa, incarneranno l’entrata in scena della Storia e la rottura di ogni equilibrio basato sul “riconoscimento umano”. Man mano l'atmosfera si incupisce: arrivano le notizie cariche d’odio dei giornali, la violenza, il furto degli oggetti cari. Ogni soggetto verrà “spersonalizzato”, diverrà un semplice appartenente alla categoria degli “indesiderati”, strattonato brutalmente fino a perdere le movenze umane per poi venire abbandonato sulla scena. In Begalut, l’esilio non racconta solo l’allontanamento dal proprio mondo, ma la perdita della propria unicità di soggetto. A sipario chiuso, lontano dall'andamento trascinante e dalla leggerezza dello spettacolo, sorge qualche domanda: è possibile affrontare un tema come la persecuzione degli ebrei senza scadere nel paternalismo? È opportuno utilizzare toni ironici vista la delicatezza dell’argomento? Tolto il valore mai banale della memoria, una risposta si può intravedere nel sentimento che un tale lavoro suscita negli spettatori: l’empatia per l’altro da sé. Tsuladze riesce a evocarla, lasciandoci come gli attori sulla scena: senza parole.
Ornella Giua
laboratorio Per uno spettatore critico