Senza l’altro chi siamo? È una domanda dalla quale non si scappa, c’è poco da fare. Quante volte abbiamo desiderato, errando, di essere qualcun altro? Lo spettacolo Chekhov’s First Play del collettivo Dead Centre, in prima nazionale al Vie, sorprende e inquieta, ci spara addosso con quella stessa pistola su cui Anton Cechov, lo scrittore, ci avvisa che: «Se nel primo atto del dramma appare una pistola, allora questa dovrà sparare nell’ultimo atto». Bang! I registi Ben Kidd e Bush Moukarzel mettono in pratica un’idea di teatro partecipato sorprendente, proponendo allo spettatore l’uso delle cuffie per seguire più da vicino la dinamica dello spettacolo. L’intrusione del commento dei registi tra le battute degli attori è un elemento a sorpresa che disorienta meravigliando. La rivisitazione del dramma Platonov di Cechov diventa in questo spettacolo la messa in scena di un’allegoria in cui l’elemento dominante è l’attesa quasi al limite dell’ossessivo, l’attesa di un capovolgimento totale dei piani. Nel giardino di una villa ottocentesca, attorno a una tavola bandita di cibi e bevande, gli attori si scambiano battute sull’andamento dei loro affari di lavoro, sull’affetto che se c’è è sempre troppo poco, su quale fine abbia fatto Platonov dal momento che sua moglie è incinta, su come Platonov sia riuscito a essere qualcuno… Su di lui non si sa molto, eppure il suo ricordo lega tutti i conviviali, che cosa si aspettano da lui? C’è un rimbalzo circense di parole, una vuotezza di fondo. Come potersi salvare dalla noia, come ritrovare il senso, la pienezza? I fili della narrazione si torcono tra le dita del regista che, sempre con il commento, continua a dispiegarci la storia, le parti che ha tagliato o cambiato, i personaggi che ha eliminato, con battute veloci o sospese ci descrive il suo lavoro drammaturgico. Nella casa di Anna Petrovna, padroni sono i vizi e schiave le virtù, ognuno dei suoi ospiti è posseduto da una vena nevrotica: c’è chi ha il passo accelerato e avanti e indietro e indietro e avanti, la stessa Anna non si risparmia tra un bicchiere di vino e l’altro, c’è chi invece ha ancorato la vitalità a un ricordo lontano e poi l’assenza fisica di Platonov attorno a cui tutto si alimenta. Assistiamo a una distruzione fisica e spirituale, pezzo d’anima dopo pezzo di carne, cosa rimane? Una palla demolitrice viene scagliata sulla villa, il rumore dei mattoni, una caduta e finalmente la possibilità di riprovarci, perché dopo la morte c’è la rinascita e così via in una ciclicità spaventosa. La canzone New Error dei Moderat inaugura una nuova stagione, gli attori si coordinano in una coreografia, la musica crea una connessione tra passato e presente per commentare che alla fine i mali cambiano, le cure non ci sono, che Platonov è chiunque provi a esserlo. Sotto la supervisione della voce del regista che mai tace, ma sempre smuove, lo spettacolo prende una piega inaspettata: seno nudo e martello in mano, zaino in spalla e gonna all’uomo, scarpe eleganti e trapano in azione, vomito di sangue sulla camicia del medico, un aborto verde e una veste bianca, la nevrosi collettiva, peste contemporanea. In mancanza di una direzione provochiamo una reazione che faccia sobbalzare, che faccia crollare la certezza che ormai è troppo tardi, proprio come gli attori di questo spettacolo mostrano, tra una smartellata e l’altra, la forza distruttrice associata al senso di liberazione. Distruggere per non implodere. E forse la vitalità si riduce a uno slancio, giusto il tempo di annegare nell’azione e non nel pensiero.
Carmen Zaira Torretta, laboratorio Per uno spettatore critico