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LABORATORIO DI GIORNALISMO E CRITICA > Sparare a Cechov, Shooting Chekhov. Intervista ai Dead Centre

[english version below]

L’edizione 2017 di VIE Festival accoglie a Modena i Dead Centre, collettivo rivelazione della scena internazionale, sulle tracce del primo lavoro teatrale del giovane Cechov. Giovani anche i due registi, Ben Kidd e Bush Moukarzel, che incontro al Teatro Comunale Pavarotti, in pieno fermento per i preparativi per la prima: sul palcoscenico ancora il cantiere di quella che sarà la facciata della tenuta ottocentesca di Anna Petrovna, mentre in tutto il teatro il profumo silenzioso e rassicurante delle poltrone è sovrastato dal rimbombare industrioso di voci, martelli e carrucole. Per ripararci da tutto ciò – senza mai perdere del tutto contatto col palcoscenico – scegliamo un piccolo palco decentrato del secondo ordine. «Che teatro meraviglioso! Come sono raffinati questi palchi… ma davvero si assiste agli spettacoli anche da qui?» Inizia così la nostra chiacchierata, tra stupore e meraviglia, mentre poco alla volta vengo contagiato dalla loro sinergia e dal loro entusiasmo.



Lasciamo da parte Cechov per un momento e parliamo di voi. Qual è la storia dietro al vostro nome e al vostro lavoro?

M: Ben e io abbiamo frequentato l’Università di Nottingham, lì ci siamo incontrati scoprendo di condividere gli stessi interessi. Ci siamo poi persi di vista per qualche tempo: io mi sono trasferito in Irlanda dove ho iniziato a lavorare come performer, mentre Ben a Londra proseguiva la sua carriera di regista. Nel 2012, mi venne l’idea per una performance ispirata a Proust da realizzare in Irlanda e Ben arrivò per dirigere il monologo che avrei recitato. Quello fu l’inizio della nostra compagnia.
A quel punto dovevamo proprio darci un nome, devi sceglierne uno, soprattutto per tutte le carte e le formalità. Non so da dove arrivino queste cose, come un sogno, non so… tutto ciò che è morboso ha sempre avuto un forte richiamo su di me, sono una persona abbastanza morbosa e ho sempre seguito pensatori come Howard Barker, che sostiene che sia la morte il soggetto del teatro, il vero soggetto dell’arte. La vita e la felicità non hanno bisogno di noi, se la cavano benissimo da sole; il dolore invece, la disperazione, la tragedia o la morte sono proprio ciò che dobbiamo continuamente indagare, comprendere, condividere, ciò di cui dobbiamo parlare per salvare noi stessi da una forma di disperazione culturale. Questo è stato uno dei motivi della scelta di avere dead nel nome… seguito da centre, che nel gergo teatrale diviene ovviamente una delle posizioni sul palco: a destra, a sinistra e dead centre, centrale davanti alla platea. Qui si cela una connotazione paradossale: per un verso è un punto di precisione, l’esattezza di una misura; per l’altro si fa cavità, vuoto abissale. Quasi come un buco nero in cui dovrebbe in genere darsi un centro, il protagonista, ma in questo caso non c’è nulla perché qualcosa è scomparso.

Il nome suona davvero programmatico in questi termini, come se disegnasse una traiettoria coerente per tutti i vostri progetti. Come si svolge il lavoro creativo a due e successivamente quello con gli attori?

K: Non ne ho idea… non so proprio come facciamo…

M: …non rispondere allora!

K: Guarda non so fino a che punto ogni processo creativo risuoni del nome della compagnia – suppongo anche che ciò dipenda dal fatto che il nome è stata una tua intuizione. Ma credo che avvenga un po’ lo stesso col proprio nome, di cui si dimenticano le eventuali connotazioni e anche che significhi qualcosa. In ogni caso, per parlare un po’ di più del processo creativo, ritengo che sia stato particolarmente proficuo essere in due e lavorare insieme, puramente per la dialettica che si alimenta, per il dialogo, nel tentativo di venir fuori con qualche idea che desti l’interesse anche dell’altro. Creare e lavorare costantemente in una forma d’arte viva induce a concepire idee che istaureranno un dialogo con il pubblico, idee che si presenteranno a quest’ultimo e lo provocheranno. Come reagirà chi guarda?
Impegnarsi in un dialogo è stato davvero utile e, direi, dove si è in due – giusto per richiamarsi al nome – non può esserci un centro, perché c’è un doppio e non può esserci il mezzo… ecco un bel saggio di sciocchezze! Bush ripete spesso che il suo faro è creare qualcosa non sia mai stato visto prima a teatro. E io sottoscrivo appieno, con il caveat supplementare che siamo indubbiamente condannati a fallire: non raggiungeremo mai pienamente questo obiettivo, semplicemente perché abbiamo visto un numero infinitesimo di ciò che è stato messo in scena; ciò non significa tuttavia che non si tratti di un’ambizione nobile ed emozionante. In questo modo, se il processo consiste sempre nel testare un’idea su qualcun altro, tale processo può avvenire fin dal principio… Ha qualche senso? Per me lo ha.

M: … tra l’altro ci conosciamo così bene che possiamo permetterci di trattarci in modo brusco. È davvero importante e solo così si può andare avanti. Certo c’è anche l’altra faccia della medaglia: devi essere premuroso, dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro – come in un matrimonio, altrimenti l’amore muore – ma possiamo permetterci di esseri diretti.

K: Chi come noi proviene dalla tradizione teatrale anglo-irlandese guarda talvolta con invidia una certa tradizione dell’Europa continentale, penso alla Germania ad esempio, in cui le compagnie di attori lavorano stabilmente insieme. Tra di loro infatti possono essere terribili; in fondo è come una famiglia, per cui non importa se dici: «È un’idea assurda, stupido!», poi si fa la pace. Diversamente in Irlanda e Regno Unito trovi spesso lavori che non sono esattamente emozionanti o rigorosi come dovrebbero, perché le persone smettono di parlare con franchezza prima ancora di iniziare, vogliono rimanere amici, vogliono essere scritturati ancora dalla tal persona, vogliono recitare nella prossima replica. Il nostro tentativo va in tutt’altra direzione.

M: Per quanto riguarda gli attori, ovviamente dipende dall’idea. Se vuoi provare a creare qualcosa che pensi il pubblico non abbia mai visto prima, progetti differenti avranno esigenze diverse; è così che servi una certa idea. L’ultimo nostro progetto, per esempio, era un monologo (Hamnet) per un bambino di undici anni che resta in scena da solo per un’ora, in quel caso abbiamo dunque scritturato un bambino. Non abbiamo chiesto a Dylan (Dylan Thige), che è nei suoi trenta in Chekhov’s First Play, lui è meraviglioso, mi farebbe davvero piacere lavorare ancora con lui in futuro, è solo che l’idea è la sovrana di tutto il processo e tu segui quella.



Affidare a un bambino un intero monologo e persino nel nome di Amleto… una scelta bold, audace…

M: Bold in Irlanda ha un significato diverso, decisamente più vicino a naughty, disubbidiente, impudente, indisciplinato. Ovviamente si usa anche per coraggioso, ma se definisci qualcosa bold in Irlanda è perché in qualche modo offende la mentalità corrente, come l’inganno – o il tradimento. Ma può essere un elemento positivo, noi speriamo di essere bold, nell’accezione irlandese.

Si può dire che scegliere l’«irrappresentabile» primo dramma del giovane Cechov sia stato altrettanto bold, specie considerando che Chekhov’s First Play è il vostro primo incontro con i classici. Perché partire da un classico fantasma?

M: Questo non è stato esattamente il nostro primo approccio con un testo esistente di un autore classico moderno. Abbiamo lavorato su un progetto attorno a Proust, ma ovviamente avevamo a che fare con un romanzo, nessun testo teatrale quindi. Poi la nostra maggior produzione Lippy è stato un testo originale, la storia di un patto suicida realmente accaduto in Irlanda. Da questo punto di vista Chekhov’s First Play rappresenta sicuramente la nostra prima volta rispetto al testo di un drammaturgo canonico.
Tuttavia, l’ispirazione, o l’attrazione, è venuta scostandosi dal corpus cechoviano tradizionale, Il gabbiano, Il giardino dei ciliegi, Tre sorelle ecc. Questi drammi non hanno bisogno di noi, sono perfetti – nel senso che hanno una tale bellezza di composizione da non richiedere alcun intervento. Di contro, questo primo dramma è come un bambino… o un teenager. Praticamente è il teenager di Cechov: è scontroso, sfacciato, fuma e si droga; è smarrito e ha bisogno che accorriamo come genitori a nostra volta confusi per dirgli: «Ehi, non morire, vediamo come possiamo aiutarti». Tra l’altro, citare Cechov già nel titolo si rivela fruttuoso, perché la gente arriva carica di aspettative che poi puoi onorare, oppure sovvertire. Questa è stata l’attrazione fatale... ma è stata un’idea di Ben!

K: Sinceramente credo che la questione del fantasma che abbiamo evocato sia un ottimo modo per parlarne, è un’opera dimenticata. Quando il teatro invita noi tutti a cimentarci con i classici, affiora sempre nel tessuto culturale collettivo e nella mente del regista una certa idea del dramma in sé, di una presunta autenticità che andrebbe onorata. Talvolta si affermano forme crudeli di cultura, in cui qualcuno presenta una versione de Il gabbiano e qualcun altro se ne esce con: «Nah, non hanno proprio capito la pièce, è molto meglio di così!», ma questa sorta di idea platonica del dramma – dramma che ovviamente è sempre un’opera reale, che esiste – è veramente restrittiva.
Lo spettacolo che abbiamo realizzato contiene idee e riferimenti provenienti da tutta l’opera cechoviana e raccoglie i nostri migliori sforzi per comprendere cosa cercasse di esplorare l’autore con il suo gesto. Non sono interessato ad avere ragione di Cechov, perché si fraintende sempre, e forse può essere persino più interessante mancarlo, perché la mia intenzione è creare qualcosa di originale. L’arte crea qualcosa di originale quando tu stesso hai la sensazione di partecipare a un processo storico di rivalutazione . È insolito ma quando si sceglie un dramma fantasma, già rifiutato e distrutto – un orfano, sotto molti aspetti – allora non importa se infrangi le regole, perché almeno stai dando un’occasione a quell’opera di andare in scena.



Quali pensiate siano i limiti che tentate di superare attraverso il vostro lavoro sul testo di Cechov, dal momento dell’ideazione alla messa in scena?

M: Beh – cercando di non svelare troppo per chi verrà a vedere lo spettacolo – si tratta di introdurre un elemento sconosciuto, mai provato, davvero anarchico, all’interno di una messa in scena invece organizzata su recitazione e coreografie messe a punto attraverso il lavoro di prove. Ogni sera che andiamo in scena si sviluppa questa tensione tra, da una parte l’idea di un teatro in cui ogni cosa si svolge secondo i piani e dall’altra qualcosa che irrompe e scombina il piano, probabilmente deviando completamente la traiettoria. Questo elemento di anarchia è uno dei tramiti con cui ci auspichiamo che questo spettacolo vada oltre i limiti.

Immagino che questo abbia anche a che fare con la presenza del regista attraverso le cuffie auricolari in platea. Che ruolo gioca nella performance? Guida e scorta per pubblico, o piuttosto tiranno onnipresente?

M: Credo che sia come con qualsiasi altra autorità o struttura di governo: può essere utile, può abusare del suo potere o persino collassare e svanire nel nulla. Comunque un altro modo di immaginare il regista è molto semplicemente come una voce interiore, così che mentre guardi qualcosa c’è qualcuno che interviene costantemente: «Oh, non dovrebbe essere così. Stasera stanno davvero facendo un macello, devono essere nervosi per via del Teatro Pavarotti…» Questa sorta di continuo dialogo e commento su ogni cosa diviene un’analogia delle nostre menti, occupate senza tregua: «Ah com’è interessante questo spettacolo… in realtà non ho mangiato, ho un po’ fame… spero che non si tiri per lunghe… devo andare in bagno? Forse dovrei… Dovrei chiamare mia madre, è un po’ che non la sento…» Le voci incessanti nelle nostre teste portano il caos, una sorta di molteplicità in ogni istante, anche ora: metà sono qui, metà non più, intento a pensare cosa ci sarà da fare non appena l’intervista sarà finita…

…presto, giuro…

M: …la voce diventa una forma di contrappunto, per cui, anche se inizialmente si tratta della voce di un regista che detta, racconta e tenta di esercitare il controllo, allo stesso tempo va intesa come la voce che parla e onora la particolarità e l’individualità di ognuno, di ogni testa, di ogni singolo spettatore. Tra l’altro – ma tu saprai dirci di più essendo tra il pubblico – penso che l’esperienza insolita del seguire lo spettacolo attraverso le cuffie produca l'effetto di sentirsi molto soli e, allo stesso tempo, essendo a teatro, di far parte di un viaggio collettivo. Questo è un interrogativo che si affaccia qui più del solito: quando siedi a teatro immagini una situazione di gruppo, mentre qui sei esposto alla contraddizione di essere tutto solo… insieme.

Un’ultima domanda prima di lasciarci – potete anche scegliere di non rispondere. Chi è Platonov, in una parola?

K: Temo di non poter rispondere senza rivelare tutto… Ho soltanto una risposta noiosa, perlomeno lunga, proverò a rispondere in breve: una delle cose per cui crediamo che Cechov fosse eccezionale è il suo tentativo di mettere in questione l’idea del protagonista. È evidente che nutrisse forti sospetti verso tale figura, sia nei racconti sia in teatro e alla fine, quando scrive Il giardino dei ciliegi, è davvero difficile riconoscere chi sia il personaggio principale. La nostra cultura è ancora imperniata su questa idea di centralità, per questo ci interessava svelare che è una menzogna, che dissimula gran parte dell’opinione comune – benché dannosa – su come giri il mondo. Contro la logica che ha permesso l’ascesa di figure come Donald Trump, resta il volto mostruoso della verità: il memento mori, per cui siamo tutti destinati alla morte e perciò non può esserci centralità, poiché l’idea di un personaggio principale proviene in qualche modo da ciò che dovrebbe essere un dio o qualcosa del genere…

M: … ecco il tuo dead centre!

K: Direi di sì. Si potrebbe pensare a una versione idealistica, ottimistica per interpretare tutto ciò. Quello che intendiamo, da un punto di vista teorico, è che c’è qualcosa di inerente al concetto di protagonista che in verità nessuno possiede, per cui direi che Platonov dovrebbe essere…

M: … lo spazio…

K: … sì, il ruolo minore in cui dovrebbe finire quello principale. Il personaggio secondario in effetti è ciascuno di noi, nessuno di noi sa veramente ciò che fa. Quando accettiamo di non essere il centro pulsante rimane uno spazio, uno spazio in mezzo…

A cura di Gianluca Poggi, laboratorio Per uno spettatore critico


[ENG] Shooting at Chekhov: classics always have a dead centre.

As VIE Festival 2017 begins, Modena hosts the international revelation company Dead Centre, on the track of the first theatrical work by the young Chekhov. And young are the two directors, Ben Kidd and Bush Moukarzel, whom I meet at Teatro Comunale Pavarotti in the midst of the hectic preparations for their Italian debut. On stage, still a sort of construction site of what will be the 19th century façade of Anna Petrovna’s estate, while the industrious noise of voices, hammers and pulleys overwhelms the silent and reassuring smell of the velvet armchairs. In search of a quieter place – without losing completely contact with the stage – we choose one of the little rooms of the second gallery. «What a beautiful theatre! Look at this fancy room… do you really watch the show from up here?» Our chat begins, between surprise and wonder, while their enthusiasm and synergy slowly affect me…

Let’s leave Chekov aside for a while and talk about you. What’s the story behind your name and your work?


M: Ben and I were at Nottingham University together and, when we met, we had a shared interest in the styles of work and all this. We lost touch for some time, I’ve moved to Ireland and started working there as a performer, while Ben was in London, continuing his work and career as a director. Then in 2012, I had an idea for a performance based around Proust that we did in Ireland and Ben came over to direct that solo I performed. That was the origin of the company.
And really you have to just have a name, you have to pick one – mainly for the forms more than anything. I don’t know these things, where they come from, like a dream or whatever… Really, the appeal for me would always be the morbid, I’m quite a morbid person and I’ve always followed thinkers like Howard Barker, who believes that death is the subject of theatre, it's the subject of art. Life or happiness don't need us, that would look after itself, but sorrow, despair, tragedy or death are really what we need to be examining and understanding and sharing and talking about in order to save ourselves from a sort of cultural despair. That was one of the appeals of having the name dead… then the centre becomes a term we use in theatre obviously: stage right, stage left, centre. It has this kind of paradoxical connotation of, on the one hand, being this precision, this exactitude of measurement, and, on the other, a hollowness, an emptiness, a vacuum. It’s almost like a black hole where there should be usually the centre, the protagonist, but in this case there’s nothing because something is disappeared.

It sounds like there’s something really programmatic in the name, drawing a coherent direction for all your projects. How do you work together in the creative stage and with the actors afterwards?

K: I don't know... I don't know how we do...

M: …don't answer that...

K: Well I don't know about the extent to which every process relates to the resonances around the name of the company – probably because I suppose the name was your invention. But I also think that it’s a little bit like your own name, I forget that it has any connotation, that that name means something. Anyway, just to talk about a little bit of the process, I think it has been quite useful that we have been two people, working together, purely for the dialectic, for the dialogues and for an attempt to try and come out with an idea that the other person is interested in. Because that's constantly making and working in a live art form like this, you’re always having to conceive of ideas that will be in a dialogue with an audience, that will always be presented to it and provoke it. How will the audience respond?
Engaging with the dialogue was quite useful and, I guess, when there’s two – just to relate it to the name – there can be no centre, because there's always a two and there's no middle… and that's maybe a useful bit of nonsense! Bush would often say that he's very driven to create something that has never been seen on stage before. And I will follow that up always with the extra caveat that surely we will always fail, we'll never achieve that because we've seen a very small amount of things that had been on stage, but that doesn't mean that it's not a noble ambition, or an exciting one. This way, if the process is always trying to test an idea against somebody else, then that can begin from the offset, from the beginning... Does it make sense? It does to me…

M: ...also we know each other very well that we can be rude to each other, that's very important and you can just get on with that. Of course, there is a flip side of that: you need to be caring, we have to look after each other – like a marriage, otherwise the love will die – but you can always be direct.

K: Coming from the English-Irish theatre tradition, sometimes you would look with envy on some of the continental European tradition, like in Germany, where there would be a company of actors working together all the time, because one of the things that develops with those companies is that they can all be horrible to each other. It’s like they're family, so it doesn't matter if you say «I think it's a terrible idea, you're stupid!» because you'll make it up. Whereas in the UK and Ireland often you find a work that isn't quite as exciting or rigorous as it should be because people just stop short of being rude, they want to remain friends, they want to get employed by that person again, or they want to act to be in the next show as well. Our attempt was to create a different scenario.

M: As for the actors, of course it depends on the idea. If you want to try to create something that you think audiences have never seen before, different projects will have different requirements and that's the way you serve that idea. For example, our last project was a solo performance (Hamnet) for an eleven-year-old boy that goes on stage for an hour on his own, so you cast a child. We didn't ask Dylan (Dylan Thige), who's in his thirties in Chekov’s First Play, he’s wonderful, I'd love to work with him again but it’s just the idea is the king… or the queen of our process, and you follow that.

Casting a child for a solo performance and somehow in the name of Hamlet… that was, if I may say so, bold…

M: Bold in Ireland has a different meaning, it’s more like naughty. Obviously bold means courageous, but if you call something bold in Ireland it's because it somehow insults the cultural mindset, like being cheated. But it can be a good thing, hopefully we are bold, in the Irish sense.

Choosing the «unstageable» first play by the young Chekhov looks bold as well, especially considering Chekov’s First Play is your first approach to a classic. Why starting from a ghost classic?

M: This wasn’t our first engagement with an existing text from a modern classical author. We had worked on a Proust project previously, but of course, we had just the novel, there was no theatrical text. Then our first major production Lippy was an original text based on a suicide pact that happened in Ireland, so Chekhov’s First Play was certainly the first time to approach a text from a canonical writer.
But the inspiration or the attraction was to sidestep the main body of Chekhov’s work, The Seagull, Cherry Orchard, Three Sisters etc... Those plays don't need us, they are perfect – meaning they have such an organized beauty, that they don’t need help. On the contrary, this first play is like a child... or like a teenager. It’s like Chekhov's teenager: he's rude, he's bold, he smokes, he takes drugs and he's lost and he needs us to come in as confused parents as well to say «Hey, don't die, let's see how we can help». Then, by using Chekhov in the title people come in with expectations and that is useful, because then you can either honour those or subvert them, or whatever. So that was the attraction... but it was Ben's idea!

K: I think the ghost thing is a good way of saying it actually, it's a forgotten piece. When theatre makes us all work with classical texts, there’s always in the cultural framework, in the mind of the director or whatever, this idea of the play itself which must be honoured. Sometimes there’s a cruel culture where someone does a version of The Seagull and someone would come «Nah, they didn't really get the play, the play is better than that», but this sort of a platonic idea of the play – which of course is real, it exists – is very restrictive.
This piece we've made contains ideas and texts from all of Chekhov's work and it's more just our best attempt to understand what the author was trying to explore with his gesture. I mean, I'm not interested in trying to get it right, you get it wrong, and it may be more interesting in getting it wrong, because we're interested in creating something original. Art creates something original if you feel you are also part of a historical process of reassessing The Seagull. It’s weird but to choose a ghost play, a play that is already discarded and destroyed – an orphan, in many ways – then it doesn't matter if you break the rules, because at least you're giving the play a chance to run, so to speak...

What do you think are the limits you try to push with your work on Chekhov’s text and in the making of your piece?

M: Well, trying not to give that much away if people are coming to see it, it's to introduce within a very organized, choreographed and rehearsed staging of the work an element which is unknown, unrehearsed and really anarchic. Every evening we perform the show there’s a tension between, on the one hand, the idea of theatre where you know exactly what’s going to happen because that’s rehearsed and understood and everything goes into plan and, on the other one, something which comes into and ruins that plan, maybe sending it all off in another direction. This element of anarchy is one of the ways in which we hope that this piece "pushes the limits".

I guess this has also something to do with the director’s voice through the headphones the audience will put on. What’s his role in the performance? Is the director supposed to be a helpful guide to the audience, or rather a tyrant?

M: Oh well I think it's like any authority or government structure: it can be helpful, it can be abusive and also collapse and disappear. However, one other way in which you can imagine the director very simply is like a voice in your head, so you're watching something and somebody is constantly telling: «Oh it shouldn't be like that. Oh tonight they're really fucking it up, because they're nervous, because it's Pavarotti's Teatro…» This kind of constant dialogue and commentary on everything becomes an analogy for our minds, constantly going like «Ah this is interesting a show… actually I didn't have lunch and I'm a bit hungry… I hope this doesn't go on for too long... Oh do I need the toilet? maybe I do… I should call my mother, I haven't spoken to her a while…» The constant voices in our heads bring in chaos, a sort of multiplicity at any moment, even now: half I'm here and I'm also half not here, thinking about what we'll do next as soon as this interview finishes...

… Soon, I promise...

M: The voice becomes a sort of counterpoint, so, although it's supposed to be a voice of a director initially dictating and telling you and trying to control, at the same time it's supposed to speak and honour the particularity and individuality of every voice and every head of everybody who comes to the show. Besides – but you can tell us more as part of the audience - I think one of the strange experiences of watching a show with headphones is you feel very alone, and at the same time, by virtue of the fact that you're being at a theatre show, you are part of a collective journey, a collective experience. This is the question that comes to foreground here more than usually: when you’re sitting in a theatre you imagine it more like a group experience, while here you have the contradiction we’re all alone… together.

One last question before we leave – and you can choose not to answer it. Who is Platonov in a word?

K: I can’t help with spoiling it, I suppose, but... I only have a boring answer or a long answer and I'll try to keep it short: one of the things we think Chekhov was very good at was trying to interrogate the idea of the central character. You can tell that he is very suspicious of this idea in stories or in theatre and by the end, when he gets to Cherry Orchard, it's very hard to know who's the central character. Our culture is still set with the idea of this centrality, so we were just interested in the idea that this is a lie, which covers up a lot of the mainstream, though damaging, ways of thinking about how the world functions. Against the logic underpinning the rise of figures like Donald Trump, there stands the scary face truth that we will all die and hence there is no centrality, because the idea of a central character comes in some ways from what should be a god or something...

M: … so that's your dead centre!

K: Yes, I suppose  You could think a kind of idealistic, optimistic version of understanding of that. What we mean conceptually is that there is something inherent to the concept of the lead character, which actually nobody possesses, so I suppose Platonov should be...

M: ... the space...

K: … yes, the small character where the big lead character is supposed to go. The small character is really all of us, none of us really knows what we do. When we accept that we're not the core there remains a space, a space in between...

         

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