In un silenzio fatto di piccoli rumori, Giovanni mescola un mazzo di carte e guarda con insistenza il pubblico. Dietro di lui cammina Vito, rintanato in una giacca blu da lavoro, curvo sulle spalle, smuovendo piano un pallone sgonfio tra i piedi. I due giovani siciliani sono uomini in attesa, in cerca di lavoro e solidarietà. Si sostengono l’un l’altro mentre le risposte non arrivano, seduti in un’anonima anticamera che continuamente si trasforma, diventando ora una piccola taverna per una partita a scopa, ora una sala d’attesa, ora una palestrina per giocare a pallone. Ritroviamo, in questa, la stessa “stanza” di Scanna di Davide Enia, ugualmente familiare e aperta ai giochi e alle immagini mentali dei suoi abitanti
Assistiamo a tante piccole narrazioni cucite l’una all’altra dallo stretto dialetto palermitano, una lingua che diventa musica e corpo e che regge in maniera fondante tutto lo spettacolo. Giovanni e Vito si raccontano barzellette lunghissime, si arrabbiano con i fantasmi delle loro madri o delle loro mogli; si perdono in audaci sogni rivoluzionari, allenandosi per una rapina in banca inscenando il colpo, i pianti, la tensione e la fuga. Sono due corpi che si fondono in un’unica macchina scenica, o che dialogano tra loro con i ritmi di una partita a carte, fatta di studio reciproco, di attenzione alle piccole mosse e in continuo atteggiamento di difesa. Una drammaturgia nata sulla scena, che ha però bisogno di scelte più forti, di maggiori confronti e, forse, di soggetti meno autoreferenziali.