Iniziamo con una curiosità rispetto allo spazio che visiteremo stasera per assistere alla proiezione di Daimon. Che cos’è lo Zut e in che modo lo gestite?
Lo Zut è il nostro atelier, in origine era un vecchio fienile ora ricostruito e completamente rimesso a nuovo. È il nostro nuovo spazio di lavoro e finora non vi abbiamo mai accolto il pubblico. L'apertura avverrà proprio in occasione di Non ho mica vent'anni! e siamo piuttosto emozionati, quasi agitati! Una sorta di debutto: la prima volta che accogliamo gli spettatori nella nostra nuova sede...inoltre tutto questo ha comportato un lavoro ulteriore non indifferente, montare una scenografia adatta ad accogliere le persone, il dispositivo per le proiezioni video e il dj set. In futuro pensiamo di mettere lo Zut a disposizione di altri artisti che avranno bisogno di spazi di lavoro, perché molto spesso abbiamo incontrato compagnie, giovani artisti che non sanno dove fare le prove, che non hanno un luogo dove imbastire il loro lavoro. Noi adesso l’abbiamo, e consapevoli di quanto questo dato sia importante, abbiamo deciso che tutte le volte che non lo utilizzeremo lo presteremo a chi ne ha bisogno.
Lo Zut ha cambiato il nostro modo di lavorare: prima avevamo dei tempi lentissimi, perché le scenografie e gli elementi tecnici erano allestiti e montati nella nostra abitazione, dove poi avvenivano le riprese. Era tra l’altro una situazione un po’ alienante avere scenografie e macchine dentro casa, nel nostro ambiente domestico. Da quando abbiamo allestito lo Zut ci siamo scoperti molto rapidi anche nel preparare scenografie molto grandi.
Una rivoluzione di metodo…
E anche di tempi!
Parliamo ora dello spettacolo che portate al festival…
Il concetto importante di questo episodio del progetto Daimon è quello di still life o still leben, che in italiano possiamo tradurre, anche se in maniera meno efficace, con “natura morta”.
L’episodio si chiama Alleluja, ed è presentato in anteprima per Non ho mica vent’anni!. Si compone di Trent, una prima parte che abbiamo realizzato a settembre e che mancava di inizio e di fine. Ora invece è completo. È il secondo episodio del progetto Daimon, dopo Il Laceratore. È una video installazione che definiamo “cinema da camera” perché viene allestito un micro cinema o micro teatro dove è possibile accedere in un numero limitato di spettatori, e anche in questo lavoro si dà spazio alla sperimentazione, infatti la tecnica usata è quella della proiezione anaglifa come nel precedente episodio.
Questa seconda puntata pone l’accento sul concetto di natura morta e su come questo termine sia in realtà sviante. Infatti i temi tipici dei quadri di questo genere sono vegetali o animali, tutte cose pensate per la gioia dell’uomo che appaiono, in queste immagini di still life, ancora appese alla vita, sospese tra la vita e la morte. Sono quindi sospese anche tra il movimento e l’immobilità, tra la forma loro visibile e il loro prossimo decomporsi.
E se questo è uno dei concetti presenti nell’Alleluja, l’altro elemento che teniamo a mettere in evidenza è quello di “apertura”. Bataille considera l’apertura, l’overture, non come l’inizio ma in quanto incrinatura: è la rottura di un luogo. Si apre qualcosa ed entra aria. Questa fessura permette l’ingresso anche di altre storie, e si creano situazioni che si contaminano. Sebbene i Daimon siano divisi in puntate, gli argomenti sono sempre ben scanditi seppur tutti legati fra loro, e sono l’amore, la gioia, il sacrificio, l'orrore e la morte.
Avete scelto di declinarli in quest’ordine oppure in ciascun episodio rientrano tutti anche solo in filigrana?
Diciamo che comunque nell’insieme i temi sono aperti, e allo stesso tempo sono rinchiusi in sezioni, come se fossero delle partiture. Quindi c’è il momento del sacrificio, che può essere quello di un uomo o di un animale, in ciascun caso il senso è quello di produrre cose sacre, e conseguentemente ci sono le parti legate all’estasi, a quella amorosa come quella delle sante: nel Laceratore c’era Caterina da Siena, in Alleluja c’è l’intera ricostruzione di un rituale sacro.
Al di là del progetto Daimon, a livello di poetica del vostro collettivo, vorrei che mi raccontassi da cosa nasce la vostra scelta o la necessità di recuperare un linguaggio visivo, anche rispetto ai mezzi e formati che voi adottate, che se non può definirsi delle origini appartiene comunque a un’era pre-digitale. Non mi sembra una scelta esclusivamente estetica, ma di sostanza.
Sì, ecco, il mezzo determina il linguaggio, o comunque ne costituisce una parte molto forte. Partiamo forse dagli albori della tecnica perché ogni volta che ci approcciamo a un nuovo lavoro abbiamo bisogno di impadronirci del mezzo che verrà usato, perché davvero non è una scelta estetica ma sostanziale.
Così lavorando su Bataille è nata la necessità, quasi l’obbligo di lavorare nella forma anaglifa, nel 3d. La cecità è un tema sempre presente nell’opera di Bataille, e quando sperimenti la visione anaglifa, attraverso gli occhialini, hai di rimando la sensazione di essere rimasto con un occhio cieco, come tappato. È anche un modo per sottolineare come il guardare, il vedere, sia comunque un impegno.
Ho letto che voi definivate questa tecnica, questo dispositivo, anche cinema tattile. C’è in effetti la sensazione come quasi di toccare con gli occhi. C’è qualche nuova suggestione simile anche nella storia dell’arte dove si parla di voyeurismo tattile e si ricostruisce una fruizione più sinestetica, e applicata al cinema mi sembrava molto interessante. Anche rispetto all’opera di Bataille che si occupa di quelle che chiamerei eccedenze.
Più che il cinema è l’occhio che diventa uno strumento tattile. Perché con il filtraggio di questo occhiali ti trovi di fronte a un’eccedenza reale, un eccesso di presenza del soggetto in scena. L’eccesso di presenza è un tema molto caro a Bataille, che lega amore, gioia, orrore e morte… tutti questi sentimenti non sono sentimenti, sono eccedenze della vita, e con il meccanismo dell’anaglifo ti trovi di fronte a un eccesso di volumi, ed è per questo che il cinema lo chiamiamo anche teatro, perché i personaggi, essendo a dimensione naturale, sono presenti al punto di sembrare quasi palpabili.
Vorrei da te un piccolo chiarimenti sui formati che usate, e anche sulle scelte di lavorare in pellicola o in digitale.
Vedi a che trasformazioni dobbiamo sottoporre il digitale per usarlo! I Daimon sono tutti lavori in digitale, su cui poi interveniamo con la tecnica dell'anaglifa. Prima abbiamo iniziato con la commistione tra super8 e digitale con Spring roll, poi c'è stato Morning Smile che invece è realizzato tutto in 16mm, non come si fa oggi che si gira in digitale e poi lo si riversa in 16mm. Questo per la necessità di appropriarsi del linguaggio di quel mezzo, e assecondare il proprio discorso grazie al mezzo. Morning Smile è una specie di film ritrovato in una cantina, un film perduto, quasi di altri tempi. Questo resta a chi lo guarda, l'impossibilità di attribuirgli un tempo, un età, e per suggerire questa condizione avevamo bisogno del 16mm.
Quindi i Daimon, ma anche in tutti lavori con i Fanny &Alexander sono stati fatti in digitale, ma è un digitale modificato attraverso alcuni arricchimenti, artefizi. Le prime espressioni del nostro percorso al passaggio al tridimensionale l’abbiamo proposto ai Fanny per ArdisII e con il lavoro installativo di Rebus per Ada (Vaniada). Lì la stroboscopia era operata nel montaggio, poi in Vaniada diventava un’immagine: proiettata su fondo nero, doveva diventare una visione quasi fantasmatica, il ricordo di un qualcosa che è stato ed è perduto per sempre eppure in qualche modo ancora in vita. Un qualcosa del passato che è ancora presente e si mostra, si evoca come un ricordo. Rispetto alla scelta dei mezzi ti posso anticipare che sicuramente ritorneremo a lavorare in 16mm.
Parliamo di teatro indipendente. Voi siete una formazione anomala, in stretto contatto con le formazioni di arti sceniche dal vivo. Che cosa significa essere indipendenti in termini di pratiche e di sopravvivenza?
Siamo sicuramente indipendenti, sciaguratamente indipendenti dal momento che non percepiamo alcun finanziamento per i nostri lavori. Uno degli aspetti che ci rende più autonomi, ma anche non definibili dal punto di vista istituzionale, è questo nostro stare tra le arti performative e le arti visive, tra il teatro e il cinema. Stare in un posto che non c’è ci pone direttamente la domanda del contenitore. Perché, indipendentemente da come arrivi a produrre il lavoro, quello che preme è poi il come mostrarlo a un pubblico, la possibilità di avere un confronto. Devo dire che siamo veramente felici di quest’occasione che ci ha dato Silvia: quale migliore situazione poter presentare il nostro lavoro direttamente nel nostro spazio e con un pubblico, all’interno di un’occasione definita, organizzata e strutturata come lo è un festival!
Un contesto in qualche modo protetto, quello che Silvia ha creato, anche se rimane comunque aperto.
Infatti noi abbiamo accettato con estrema gioia. Poi per quanto riguarda la produzione lì bisogna sempre arrangiarsi. In questo caso la produzione dell’Alleluja è di Zapruder insieme a Leonardo Monti, un cine-service, che in quanto produzione ci ha prestato tutto il kit necessario per filmare.
Ufficialmente a formare il collettivo siamo io, David Zamagni e Monaldo Moretti, ma Zapruder non potrebbe esistere senza i nostri collaboratori, senza Giancarlo Bianchini, che si occupa della parte audio, ma soprattutto è un grande costruttore, e quindi è fondamentale nel montaggio delle scenografie che poi dobbiamo smontare nel giro di una giornata. In più abbiamo anche aperto la nostra formazione a quanti vogliono aiutarci a continuare sulla strada intrapresa. Perché alla fine la questione è questa: perseverare per portare a termine testardamente quello che hai deciso di fare.
Non penso che ci sia mai in nessun caso la tranquillità nel lavoro. I nostri lavori nascono sempre e si arricchiscono nello scontro con il limite. E quel limite diventerà il fulcro del lavoro, come per esempio accade in Morning smile, in cui per condizionamenti tecnici non ci potevamo permettere piani sequenza superiori a 30 secondi, cosa che appare assai strana nel mondo del cinema che ci ha ormai abituato ai più strabilianti movimenti di macchina!