ALTRO DOVE > Filosofia della performance con saggio sul contemporaneo
Come il mitico Uroboro, serpente che si morde la coda inscritto nel dna e nel nome degli Ooff Ouro, i lavori di Alessandro Carboni possiedono un andamento ciclico, spesso assegnando un primato all'involucro, al piano che racchiude il movimento. Lo spazio è un dispositivo che si autoriproduce, dotato di un livido fiato inorganico, che impone alla presenza umana una subalternità residuale. In Abq studio indiano il contenitore agisce, disegna rettangoli di luce, ritma la visione calando un pendolo centrale che si replica in piccolo sui quattro angoli del quadrato scenico. E il corpo calcola, ragiona, millimetra: avanza spingendo con le braccia gli arti inferiori inerti, scivola descrivendo circoli come una lancetta d'orologio, osserva la comparsa di fasci luminosi come un meridiano irrorato da raggi artificiali. Partendo da Quad, opera per la tv di Samuel Beckett, le istruzioni di una rigida partitura impongono l'esame dei margini, figure ritmiche e strutturali che condizionano in partenza il progetto coreografico. Partendo dalle costruzioni tradizionali delle danze indiane, in cui il luogo d'invenzione personale si gioca su minime variazioni in un catalogo fissato, sembra a tratti che il corpo di Carboni si faccia più poroso, lasciato libero di liquefarsi aggirandosi flessuoso a sondare il territorio. Ma è un'impressione momentanea. Presto riappare il quadrilatero luminoso. Subito il contenitore riprende la parola. Infine la figura umana ritorna punto eterodiretto, e chi tiene i fili s'imprime sul rovescio dell'esecuzione di un ordine già naturale.
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