Fatto di frammenti, di piccoli morsi di danza e di situazioni, Ambra Senatore è riuscita a creare con il suo Merce un divertente catalogo a consumo del pubblico, in cui ogni brandello di spettacolo ha una sua capacità di illuminare una porzione del percorso scenico della danzatrice. Ci si domanda quale sia la reazione dei programmatori quando, a luci spente, ascoltano la voce della coreografa che delinea brevemente le caratteristiche di ogni lavoro proposto e il suo prezzo. Attraverso un susseguirsi di contrapposizioni, si alternano riflessioni anche sarcastiche sulla forma spettacolare contemporanea, come l’incredibile assolo amorfo di dieci secondi in accappatoio, o sui cliché dell’universo coreutico, quando un robottino parlante alterna iniezioni di autostima e commenti di maniera sulla danza e poi la supplica di smettere di ballare, perché è troppa l’emozione suscitata. Lo spettacolo della Senatore ha una sua vis comica che pare straripante nello sganasciarsi degli spettatori e si innesca grazie alla figura sghemba creata dalla danzatrice, al suo stuperfarsi nello scoprirsi davanti a una platea in una situazione da retroscena, vestita di tutto punto da signorinella per bene eppure inesorabilmente inadatta a indossare quei panni. E allora basta il cedere di una mascella o un’andatura monca e angolare per avverare il grottesco e scatenare il riso. Nella figura stralunata della giovane donna vi è proposta un’allegoria del domestico, ma di un quotidiano anomalo in cui è sempre presente il rapporto con lo sguardo dell’altro, con l’esposizione confezionata del proporsi al mondo, prendendo in prestito in questo i disperanti modelli di un avanspettacolo mediatico che ancheggia la sua identità anatomica.