EDITORIALI > Quel senso di attesa della catastrofe
AVIGNONE - È una bella sfida, quella di quest'anno del festival più titolato d'Europa: riempire con una danza che somiglia alla performance i grandi spazi, a partire dalla Cour d'honneur del Palazzo dei Papi, dove Jan Fabre ha presentato Histoire des larmes, l'ultima sua creazione, e dove torna ora con Je suis sang, in un dittico dedicato agli umori del corpo, ai liquidi che formano la nostra sostanza. Jan Fabre, artista fiammingo che ha per mito l'artigiano totale delle botteghe medievali, quello capace di dipingere, progettare, allestire spettacoli, è anche direttore ospite di questa edizione. Ha disseminato Avignone di lavori nei quali i confini tra danza, teatro, video, performance sono a volte labili, con grande scandalo di chi vede in questo festival il fiore all'occhiello della tradizione francese, e si lamenta della latitanza dei classici e di spettacoli basati più tradizionalmente sulla parola.
Potremmo dire che tutto il mondo è paese, pensando all'Italia, ma non è vero. Perché qui riesce quello che da noi avviene solo in alcuni piccoli centri dove il pubblico è stato curato in modo approfondito, come ad Alfonsine appunto. Succede che gli spettatori riempiono tutti gli spazi e non si sottraggono a proposte ardite, a installazioni come quella africana di Jean Michel Bruyere o a lunghe epopee come le nove ore che Olivier Py ha dedicato ai 'Vincitori' (peraltro uno spettacolo di parola), e affollano il Palazzo dei Papi come la cava di Boulbon, dove Wim Vandekeybus presenta uno strano lavoro su un'umanità terminale, sopravvissuta a una specie di strage degli innocenti, mescolando danza energica e virtuosistica con vari spezzoni di film e con pezzi recitati, nell'attesa di una catastrofe. È un pubblico attento, che alla fine magari urla, fischia, non accetta, discute: anche perché quello che gli viene proposto non sempre è perfettamente riuscito (e questo è proprio il caso dello spettacolo di Vandekeybus, troppo lungo e alquanto confuso).
L'attesa di una catastrofe la ritroviamo in altri momenti del festival, come un segno di questi giorni, di questi tempi di paura. Appare nella folgorante, epigrafica Crescita XII della Socìetas Raffaello Sanzio, dove un bambino, che in una stanza bianca gioca con un pallone, come tutti i bambini, con felicità e con un lieve senso di noia, viene ingoiato da un buio che genera rumore di terremoto e da un vento che vorrebbe risucchiare gli spettatori. La Socìetasè presente anche con due episodi della Tragedia Endogonidia, Berlin#03 e Bruxelles #04 e con un'altra Crescita che verrà presentata nei prossimi giorni.
Quel senso di attesa lo ritroviamo nei video disseminati da Jean Michel Bruyere in una chiesa gotica mai terminata e poi distrutta dalla Rivoluzione. Tra navate diroccate, muri scrostati di sostegno a pilastri dall'equilibrio instabile, appare un pezzo d'Africa, attraverso piccole storie in video dei ragazzi di strada con cui l'artista lavora da anni in Senegal. Sono giovani usati come ritratti che ricostruiscono l'idea di un mondo lontano, insultato dalla nostra 'civilizzazione', devastato dal colonialismo e dal neocolonialismo dell'uomo bianco (Insulto fatto al paesaggio si intitola lo spettacolo). Non ci sono proclami politici: solo corpi, oggetti arcaici, lepri impagliate, megafoni in pelle, e piccole 'moralità' in video che aprono gli occhi su territori vasti, assolati, lontani, e su vite marginali, che cercano di sopravvivere senza smarrirsi. Anche il mito echeggia in una Diana sepolta (interpretata da una splendida Fiorenza Menni), visione vietata ai giovani Atteoni neri puniti secondo la versione del racconto di Ovidio.
Anche nello spettacolo di inaugurazione, Histoire des larmes, l'attesa è la cifra: di un mondo più umano, di uno scioglimento del corpo nei suoi umori e nelle sue compassioni in una scena raffreddata dal vetro, che allude a un luogo dove l'ordine del discorso, della ragione, cerca di incanalare gli istinti e i misteri. Di lacrime, di sudore, di piscio, di effluvi e liquidi che ci mettono in contatto con il mondo; si parla soltanto in una scena 'seccata', dopo le urla di una nascita che sembra un incubo; dopo che i corpi sono stati incapsulati in quei contenitori di freddo, trasparente rigido vetro. Un cavaliere cerca di sciogliere le cose, tra le urla di un nudo filosofo che come il cinico Diogene 'cerca l'uomo' e di una donna trasformata in scoglio per non piangere più le sue passive, amare lacrime. L'ordine della ragione, identificata da Fabre con il Rinascimento, gela anche gli scoppi fisici, le danze che arrivano al limite dell'ossessione per poi ricomporre corpi e gruppi. L'artista, come il suo Cavaliere della disperazione, simile a Don Chisciotte, cerca un Medioevo d'elezione, epoca ideale della confusione, della fusione, della passione, dell'immaginazione, della compassione. Cerca uno sciogliersi della materia e degli uomini, invocato da un grande SOS, Save our souls, scritto di fazzoletti; evoca la pioggia, le lacrime che dicono che Dio parla con noi uomini, grottesche figure di una danza di incubi fiamminghi, anime vaganti che si slanciano e vengono imprigionate in un ampio spazio cinto da scale d'assedio contro vecchie mura. Tutto si scioglierà in una grande pioggia finale, sulla scena deserta, in uno spettacolo che alterna veri momenti di emozione a parti eccessivamente didascaliche. Ma è la cifra di quest'anno ad Avignone: il rischio della creazione che ha tanto da dire, ha tanti vuoti da sondare, che può imboccare anche strade parzialmente sbagliate. Di questo grande artista il pubblico potrà vedere anche un'esposizione di opere figurative e due monologhi-manifesto, secondo il principio di questo festival: presentare non spettacoli ma ritratti compositi di ricerche in divenire.