In tempi in cui la scuola si interroga sull'efficacia del cooperative learning, verifica la necessità dell'assegnazione di ruoli per creare forme di interdipendenza positiva tra gli scolari, senza trascurare la manifestazione individuale, la Stoa di Cesena, scuola di discussione filosofica e di movimento fisico, torna a porre questioni sul senso della formazione, sulla figura dell'insegnante come mediatore maieuta, sul senso del gesto come manifestazione di un concetto, sulla necessità dell'azione.
La Stoa diretta da Claudia Castelucci della compagnia Socìetas Raffaello Sanzio pone al centro della sua scuola la relazione: tra maestro e discepolo, tra discepolo e discepolo. Quelli della Stoa, il porticato della Grecia antica in cui germinava lo stoicismo di epoca ellenica, sono oggi incontri fra giovani di varie età, dove la guida della stoarca orienta discussione e movimento intorno a questioni filosofiche, principalmente secondo due modi: uno verbale, le domande e il dialogo, l' altro il linguaggio silenzioso "del gesto e della sua ripresa che non è mai qualcosa di semplicemente meccanico" afferma Claudia Castellucci durante l'incontro-lezione Risonanza e ripresa del gesto umano, che si è svolto in apertura del festival Lavori in Pelle, nella scuola media P. Oriali di Alfonsine.
Claudia Castellucci alimenta il dialogo con e fra gli allievi segnando un cammino del pensiero attraverso la citazione, il libro, l'aforisma. Eraclito, Kierkegaard, Lévinas, anelli di una catena che inducono reazioni a catena, reificano pensiero in atto. Risuona il gesto umano, e così continua Claudia Castellucci nella lezione che nei lavori in pelle del festival trova consonanza:
La comunicazione umana non è scissa in linguaggio verbale e preverbale: il gesto al contrario è rispetto al linguaggio nel rapporto più intimo, è una forza operante nella lingua stessa. Il gesto linguistico non si esaurisce nella comunicazione, ma nel silenzio della lingua, dove vige il non voler o non poter parlare.
Il gesto, l'atto, e dunque Il ballo individuale in circostanze costrette, nella tarda serata del festival. Non spettacolo né danza, privo di scopi coreografici ma piuttosto manifestazione complementare al lavoro riflessivo compiuto dagli allievi, tra i quindici e vent'anni, chiamati a misurarsi con la riflessione filosofica attraverso l'azione, trovando e coltivando nel corpo uno strumento complice e la totalità dell'essere, l'immediatezza della comprensione.
Il corpo non è soltanto un accidente felice o infelice che ci mette in rapporto con il mondo implacabile della materia, è un'aderenza alla quale non si sfugge, e che nessuna metafora potrebbe far confondere con la presenza, con l'esperienza.
Vestiti in una sorta di kilt nero, maglietta grigia, calze al ginocchio semitrasparenti e scarpette bianche, immersi in un dispositivo sonico fortemente percussivo, gli scolari danno vita a un ballo che è "gettarsi" nel moto, circolare, inesausto, allo stesso tempo atto singolo e incontro accidentale, relazione. Creano corone rotanti dalle quali si generano spinte centrifughe, traiettorie solitarie lungo un cerchio che riproduce con il corpo e nel corpo orbite celesti, moti atomici.
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