Avere le carte in regola, nella danza di ricerca, non significa tanto avvalersi di un percorso tecnico sul corpo o di una perizia scenica, ma soprattutto riuscire a sviluppare un pensiero che comporti lo spazio di una riflessione, spesso politica oltre che estetica, sul senso della propria danza e dell'agire teatrale. Un pensiero quindi che sia capace di confrontarsi con l'esistente e con il contesto circostante, sia questo locale o internazionale, limitato al mondo del teatro o capace di creare aperture verso problematiche più generali dell'esistere nel mondo. Vincenzo Carta mostra, sia nei suoi lavori che nel percorso di ricerca precedente la creazione, di saper unire queste due istanze, riuscendo così a incatenare gli sguardi, ora per la efficacia delle realizzazioni sceniche, ora per le questioni di responsabilità, di modi e possibilità dell'agire che queste mettono in luce.
Il giovane coreografo siciliano scopre il mondo della danza durante i suoi studi universitari, in architettura, a Firenze, per approfondire ed immergersi nelle potenzialità della creazione contemporanea durante un soggiorno di studio a Lisbona. Matura in questo modo la decisione di dedicarsi completamente all'arte della performance, scegliendo di studiare a Bruxelles, ovvero la mecca dei danzatori contemporanei, nella scuola voluta da Anne Teresa De Keersmaeker, P.A.R.T.S., dove ha occasione di sviluppare un percorso teorico, oltre che scenico, sulle modalità dell'agire teatrale.
Il primo lavoro come coreografo, dal titolo Elucubrazioni, é però precedente all'esperienza nordica. Nasce sulle rive dell'oceano nel 2001, in un locale molto particolare sul porto di Lisbona. Il danzatore sceglie di lavorare in un luogo quasi trasparente, attraversato dalla luce in ogni direzione. Un bar realizzato in vetro, parallelepipedo di cristallo al confine tra l'acqua e la terra, uno spazio già di per sé ricco di suggestioni, che Vincenzo Carta approfondisce ulteriormente scegliendo di creare un'intelaiatura di elastici tesi fra le pareti. Questo esordio mostra una chiara connessione con l'interesse per l'architettura: il coreografo indaga i condizionamenti portati dagli spazi sul movimento corporeo, spazi intesi al contempo come luoghi fisici dalle specificità ben concrete e come volumetrie tangibili ma più fluide che la danza attraversa e dalle quali è attraversata. Con il proseguire del percorso il danzatore abbandona l'indagine su costruzioni spaziali determinate per addentrarsi nella scoperta di dimensioni altre del quotidiano. È questa la premessa primaria che ha nutrito We-Go, un lavoro dalla gestazione lunga, quasi due anni, in cui Vincenzo Carta insieme all'altro protagonista, Benjamin Vandewalle, dà vita a un tempo straordinario, che scardina le normali abitudini percettive per far sprofondare il pubblico in un'esperienza visivo-sensoriale vischiosa e magnetica. «Mi interessa scoprire come cambiano lo stato del corpo e le modalità percettive quando si agisce, modificandolo, su uno dei parametri che sostiene il sistema quotidiano di percezione», racconta il coreografo. We-Go potrebbe essere semplicemente descritto con l'immagine due danzatori che camminano in cerchio nel bianco assordante della scena: come sostiene il coreografo, la sua ricerca «parte dal corpo, e porta il pensiero nel corpo», incarnando i concetti in realizzazioni che prendono le mosse da situazioni assolutamente concrete.
(L.O.)
Ridefinizione, provocatoria riflessione su formati, spostamento concettuale, spinta ironico-alfabetica. Ognuna di queste formule ben si presta per descrivere il lavoro di Vincenzo Carta, figura fra le più singolari della giovane danza indipendente italiana. Partendo dagli studi in architettura, la poetica del coreografo mostra una precisa indagine sul volume spaziale, traslata in scena attraverso una doppia articolazione: da un lato il corpo che abita uno spazio-tempo, l'aleatorietà delle sue azioni e reazioni occultata in stasi di coppia, nelle sue parole «punti di contingenza desunti dalla fisica quantica». È questo il caso di We-go, nato dal festival siracusano "The Last", passato per il progetto Moving dei Cantieri Goldonetta e transitato all'ultimo Festival di Santarcangelo; nell'altro versante, Carta sembra concentrare la propria critica sui formati che la nostra società dello spettacolo è ormai riuscita a farci considerare "naturali", imponendo un vuoto di pensiero su quanto è costruito spesso a fini di sottile controllo. Ecco allora Audience with solo: a fiction of democracy "obbligare" il pubblico a scegliere l'andamento dell'azione coreografica, le sue tappe, «facendo provare a chi guarda la sensazione di decidere le sorti di un'altra persona: una distorsione considerata normale dal sistema democrazia e che, a ben vedere, può portare a risvolti inquietanti», precisa Carta. La società dello spettacolo, dicevamo. Ma anche gli spettacoli di questa società: Urban project X "occupa" una piazza per una settimana, mostrando l'allenamento quotidiano e sfruttando i passanti in quanto consiglieri coreografici. La performance conclusiva nasce assommando i suggerimenti raccolti. «Perché il formato urbano deve sempre mettere in mezzo persone che neanche sanno dove si trovano? Perché sono costretto a condensare tutto il mio background in un pezzo di quindici minuti?», si chiede il coreografo. Ecco allora uno spostamento di un formato già spostato, "tirando dentro" le persone e abitando l'urbano per sette giorni.
Non c'è pacificazione, a quanto pare, nella vena creativa di Carta. Non adesione a formule assodate ma ri-creazione delle fondamenta. Non ansia edificativa di sistemi teorici ma stimolo all'esperimento, sempre da validare scenicamente. «Ho sempre considerato superfluo, a partire da quando disegnavo i palazzi, il bello che rivela un vuoto. Perché assistere a creazioni esteticamente impeccabili ma che non ti muovono dentro? Anche se i miei lavori sono diversissimi fra loro, credo che li unisca una costante propensione alla relazione, un mettersi in ascolto di chi guarda, al di là delle forme particolari assunte di volta in volta».
(L.D.)
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