Lo schiacciasassi dell'omologazione si è accorto ormai da tempo dell'universo danza. La televisione ne ha intuite le potenzialità e ha generato un mostruoso programma che è perfetto esempio - perché esplicito, perché sfacciato - del modello "educativo" proposto dal piccolo schermo. Danza come tecnica, danza come spettacolo e successo come unico obiettivo comune, in nome del quale tutti i mezzi sono leciti. Anche il cinema sforna ultimamente con una certa frequenza storie di ballerini e danzatori alle prese con qualche coreografia da interpretare e qualche successo da raggiungere. E il pubblico apprezza. Apprezza perché riconosce tutti quelli che sono gli stereotipi della "bellezza", appagato da uno strisciante estetismo consolatorio e autocelebrativo.
Di danza vale la pena parlare solo rivolgendosi a quella minoranza ostinata e armata fino ai denti che è composta da un manipolo di gruppi ed è seguita da uno sparuto pubblico di fedelissimi. Parlare di danza resta comunque molto difficile dal momento che le connessioni, le genealogie, le estetiche appaiono sfuggire a ogni tipo di classificazione. In continuo movimento la cosiddetta "nuova" danza (che comunque mescola più di una generazione) si esprime attraverso un ampio ventaglio di formati e processi, guardando molto di più alle arti visive che non al teatro, molto di più al mondo della performance che non alla danza stessa. Ma i riferimenti sono spesso anche alla fotografia (osservata nella doppia valenza di negativo/traccia e di arte media), alla musica (rigorosamente elettronica e spaziale), al fumetto (per la costruzione di figure posticce e l'utilizzo di didascalie in scena) e anche alla grafica e alla tecnologia (dai videogame alle pubblicità).
Di questo fenomeno si parla con maggiore attenzione ormai da qualche anno ed è innegabile che nonostante le innumerevoli difficoltà si tratta di un'area vivace e in continua trasformazione. Ospitata con molta diffidenza dai teatri trova spazio (marginale, anche se ultimamente un po' in crescita) in qualche festival o in qualche piccola isola felice. Se di questa area dovessimo individuare i maggiori punti di forza, al primo posto diremmo che la nuova danza riesce a mantenersi "irriducibile". Irriducibile a schemi, a semplificazioni e a ogni tipo di "comunicazione". Nonostante una connaturata fragilità, i lavori appaiono granitici nelle scelte e nel modo di inventarsi ogni volta la scena, non concedendo mai nulla a facili estetismi o spettacolari coreografie.
Pur procedendo per approssimazioni possiamo dire con una certa sicurezza che il panorama della danza attuale appare costituito da un agglomerato di punti. Nel senso che lo scenario è contrassegnato da gruppi (spesso composti da singolarità o da coppie, a volte con la collaborazione "a progetto" di musicisti, artisti visivi eccetera) che appaiono come monadi autonome e indipendenti, del tutto concentrate a portare avanti su di sé un discorso estremamente radicale. Uno scenario di punti è per molti aspetti l'inevitabile conseguenza di un sistema spettacolare che cerca in tutti i modi di appianare le asperità con la proposta di un costante spettacolo-medio. Alzare muri per difendersi, in tutti i sensi, dal mondo contemporaneo appare almeno adesso la condizione di resistenza più diffusa e non certo priva di problematiche.
Come cifra ricorrente la danza di oggi cerca in tutte le maniere di fuggire dalla scena, di fuggire dalle richieste di "riconoscibilità" estetiche, per ritrarsi preferibilmente nell'ostico territorio dell'enigma. A costo di apparire muro inaccessibile la nuova danza si toglie di scena mostrandosi nelle pause, nei vuoti, nelle monotonie di un tempo a cui, in tutte le maniere, si cerca di restituire senso. Per molti versi si tratta di una vera e propria sfida che si lancia con il preciso scopo di riconquistarsi una spazio separato (dal mondo) capace di preservare il corpo, risvegliandone - in alcuni casi - tutta la componente "sacra". E la "sacralità" del corpo, che appare del tutto dimenticata dal teatro, resta uno dei cardini su cui ruotano tanti di questi lavori. Anche se, nella varietà dei percorsi, il corpo può apparire anche come mera presenza del quotidiano, come pura realtà concettuale o come vuota silhouette da riempire magari con fantomatiche figurine.
Rimane comunque sempre altissima la richiesta che si fa al pubblico. Si pretende uno sguardo mobile capace di entrare tra le pieghe di un "discorso" che per molti versi rimane inattingibile. Ed è parte integrante del processo creativo la volontà di includere lo spettatore in una sorta di vibrazione comune e di riformulare ogni volta tempi e modi di una relazione che molto ha a che fare con il "mettere insieme" del simbolo. Il pubblico della danza, pur sparuto, si mostra, rispetto a quello vario e occasionale del teatro, più curioso e attento ai sommovimenti della scena e capace non di rado di mettere in discussione i luoghi comuni della percezione. È un pubblico che spesso in modi differenti ha frequentato il mondo della danza ed è allenato a leggere quelle che sono le domande che soggiacciono ai lavori, per lo più domande del corpo.
Al centro, dunque, persiste la necessità di rifondare una relazione nuova con il pubblico, una relazione che non dia nulla per scontato e che si prenda il coraggio di procedere lungo un crinale di senso, con il rischio perenne che una delle due parti all'improvviso molli la presa. A questo proposito possiamo dire che alla base della nuova danza vi è la profonda e ostinata volontà di abbattere ogni possibile resto di "rappresentazione".
E la specificità del linguaggio rende questa indagine ricca di possibilità ed estremamente radicale nei rifiuti e nelle scelte. Il persistente interrogativo che in modo sotterraneo soggiace alle diverse esperienze tratta di una riflessione primordiale sul senso dell'andare in scena e anche delle reazioni, delle dinamiche, delle implicazioni di un corpo che viene esibito e di un gesto che pur privo di significato si vuole assolutamente pregno di senso e, contro orpelli e decorazioni, ha da essere profondamente "necessario". Ma è tutto lo spazio dello scena che viene sempre trattato come corpo vivente o come architettura da abitare, così come è lo stesso corpo del danzatore a elevarsi esso stesso a paesaggio, a carta geografica, a mondo autosufficiente. Eppure tutto questo a tratti rivela dei limiti che sono anche limiti di un tempo contrassegnato da paure e terrori. Se il mondo della nuova danza è ricchissimo di figure e visioni, di connessioni e di serie introspezioni è anche vero che questa a volte appare troppo ripiegata su se stessa. Nel senso che gli interrogativi di base rispecchiano una perlustrazione talmente radicale del corpo e del gesto da rendere gli spettacoli vere e proprie meteore da inseguire e con le quali è possibile condividere solo qualche traccia. Si tratta a volte di lavori dalla vita breve, contrassegnati da una fragilità che deriva da un eccessivo interesse fenomenologico e dal disinteresse a ricercare domande che siano un po' più specchio di una realtà esterna che incombe. L'impressione è che alcune esperienze siano nate e condannate a rimanere pura "maniera", pura descrizione del vuoto e del nulla, prive della reale volontà di scardinare i propri recinti, prendendosi il rischio di "uscire fuori". Sopravvalutare il ruolo della relazione, perché inteso solo nei suoi meccanismi percettivi, può diventare uno dei rischi maggiori anche per i gruppi più intelligenti, perché porta a investire energie su meccanismi scenici che se non sono riempiti di pensiero rimangono bolle di sapone, esperimenti che facilmente possono ammiccare alle mode e al bisogno incessante di "innovazione".
La deriva possibile per alcuni di questi gruppi non è l'indebolimento di rigore e il cedimento a uno spettacolo medio e non è nemmeno la mancanza di talento. Da una parte il rischio maggiore è quello di non riuscire a mettere a fuoco un "progetto" e navigare a vista affidandosi di volta in volta a risorse nuove. E dall'altra il rischio è quello di percorrere una direzione chiara e precisa che guarda a un orizzonte di pensiero ristretto e "verticale", apparendo in fin dei conti eccessivamente autoreferenziale e forse troppo dimentica delle domande del mondo.