In principio era il corpo. La grande ossessione del Novecento, la via di salvezza dagli assolutismi della ragione, dai mostri generati dall'idealismo della mente separata dalla concretezza del soma e delle vita. Il teatro del Novecento rinasce attraverso il corpo. Nel frattempo la danza esplode: sempre meno slancio aggraziato verso l'alto, virtuosismo sulle punte, sempre meno corpo di ballo e sempre più ricerca di relazioni, rottura di schemi, partendo ancora da esso, il corpo, nella sua concretezza, nei dubbi che apre, in ciò che mostra e in ciò che cela, in ciò di pesante che rivela e in ciò che lascia svanire mentre dà l'illusione di esserci.
Il panorama teatrale italiano è attraversato da moti di repulsione, di indifferenza e di passione per la danza e per i problemi che apre: trascurata dagli storicismi crociani, o contenuta nei recinti del balletto, trova altri spazi con il Nuovo Teatro, parallelamente ai colpi gloriosi di Grotowski, a quelli incerti e quotidiani di Pina Bausch, a quelli problematici e disperatamente modaioli dei primi Magazzini (quelli Criminali), a quelli astratti di Carolyn Carlson. Fino agli anni ottanta si possono seguire le tracce dei maestri e degli allievi che si moltiplicano (in modo, però, abbastanza contenuto): Bausch e Carlson, appunto, la contact dance e qualche altro filone. Con gli anni novanta tutto sembra smorzarsi, o tornare nell'alveo del teatro: la rivoluzione linguistica, corporea, tecnologica, concettuale dei "Teatri '90" sussume al suo interno anche la danza. Poi, mentre quelle esperienze di rottura "maturano", e in qualche modo ritrovano la parola, il testo, l'autore, improvvisamente ci sembra di ritrovarci in un panorama molto danzante. Gruppi e piccoli gruppi si moltiplicano, ripetendo quell'indisciplina produttiva e creativa che le avanguardie teatrali avevano già conosciuto a molte riprese. Frutto dei semi lanciati dai maestri o della disgregazione del quadro, dell'impossibilità di grandi esperienze di danza in patria o influenza dei molti nuovi maestri stranieri?
C'è un po' tutto questo. Dopo i gruppi di danza dei primi anni ottanta (Padiglione Italia, Sosta Palmizi, Parco Butterfly ecc.) molti erano andati a cercare esperienze strutturate (e nuove) all'estero. La danza europea è piena di bravi coreografi e danzatori italiani (Donata D'Urso, Francesco Scavetta, Claudia Triozzi, Emio Greco, Caterina Sagna, per citarne solo alcuni). Mentre si faceva il deserto istituzionale, nuovi gruppi cercavano di rimettere insieme i ferri del mestiere e di aprire altri spazi alla creazione. "Lavori in pelle" è uno degli esempi, come i tanti nuovi festival di danza urbana, come i molti laboratori dove si mette a cimento il proprio essere col corpo.
Si è visto che la danza è un alfabeto e un linguaggio praticabile. Caduto, per spappolatura del sistema, il muro del giudizio accademico, dello standard scolastico, la danza si è affermata come un (problematico) linguaggio del corpo, che mette alla prova la nostra presenza fisica in primo luogo, la nostra sostanza mutevole, il nostro esserci e provare la realtà; è diventata, così, praticabile fuori dei virtuosismi, come disciplina del sé, quanto mai adatta a questa nostra epoca di disperati e ingenui narcisismi per affermare il fragile bisogno di dimostrare di esserci. Molti ci provano da soli, svanita la necessità di prestazione; molti partono all'avventura dopo un rapporto con un maestro, magari anche breve, ma intenso. Si cercano per le strade dei gruppi, dei laboratori, dei seminari ecc. gli strumenti per un'arte del corpo personale, che spesso mette in dubbio la fiducia stessa nel corpo, quell'illusione novecentesca di poter ricomporre una frattura, cercando nell'esercizio e nello scontro tra diversi linguaggi una dichiarazione di posizione nel mondo. La danza si tramuta in concetto, nel senso di operazione e opzione mentale svolta attraverso il soma. O ritrova la radice della paura e del piacere in quello starci, esserci davanti, cercarsi, trovarsi. Si sogna come esplorazione d'ambiente, scultura, figura ritagliata o superfetazione, concentrazione di senso o dispersione di sé, slogamento o ricerca di cura. Si esplora come dubbio.
La danza si moltiplica perché, come il proletariato di Karl Marx, non ha nulla da perdere se non quel molto che non ha. È bisogno, utopia, prova; e perciò attrae giovani smarriti cavalieri e nobili damigelle in scarponi e sudatissime canottiere: per esperimentare la necessità di dare altri confini al possibile, per saggiare le menzogne di ciò che illudono come realtà.