Il dato centrale, quando ci si sperimenta in scena per la prima volta, non è tanto la levatura del risultato, quanto la generosità dello spendersi, del cercare il rischio, dell'avventurarsi in territori non protetti. In questo contesto, un festival come Lavori in Pelle si pone come una membrana permeabile, metà caleidoscopio di esperienze e metà paracadute d'emergenza per tutto quello che, in altre circostanze, fatica a emergere. Viene così contemplata la possibilità dell'errore, del fuori fuoco, dello sperimentarsi in senso stretto. Di più, viene sancito il diritto all'errore (formula che rubiamo dalle parole di Fabio Biondi, uscita durante l'incontro del corso di sopravvivenza): questo è persino benvenuto se sorge da una ricerca personale, da un completo mettersi in gioco, in barba ai rischi di incomprensione o "insuccesso".
Edmond Rostand, con il suo Cyrano, cantava: "Nulla che sia farina d'altri scrivere, e poi modestamente dirsi: ragazzo mio, tu puoi tenerti pago al frutto, pago al fiore, alla foglia pur che nel tuo giardino, nel tuo, tu li raccoglia! Poi, se venga il trionfo, per fortuna o per arte, non dover darne a Cesare la più piccola parte, aver tutta la parte della meta compita, e, disdegnando d'essere l'ellera parassita, pur non la quercia essendo, o il gran tiglio fronzuto salir anche non alto, ma salir senza aiuto!". Non si tratta ovviamente di questione di originalità, tanto spesso invocata insieme alla necessità, dimenticando il loro essere entrambi costrutti ideologici di una visione romantica dell'artista. La danza è arte anche mnemonica, che rimane sedimentata nelle profondità della carne, a volte come apprendimento o trasmissione di codici, a volte come esperienza di stati del corpo. Quel che è difficile è intrecciare questo alfabeto, tramandato, incorporato o eluso, in un discorso personale, magari anche privato, ma che non abbia debiti troppo cospicui con spettacoli occhieggiati in uno dei rari video di danza interessanti, nelle creazioni dei maestri o negli stilemi dei linguaggi. Citare è mossa legittima e spesso interessante, trasformarsi in epigoni o in stanchi cantori di codici usurati, al contrario, ha sapore di muffa e di pensieri asfittici.
Scegliamo dunque di apprezzare chi si sperimenta veramente come coreografo, non solo come performer, spingendosi nelle paludi del non conosciuto, senza cercare sostegni e rassicurazioni, senza lusingare il pubblico o il proprio ego, senza intravedere all'orizzonte nessun simile con cui dividere il pane e la fame. Con l'augurio finale di avere tutti la forza per "rischiare" di più, noi osservatori compresi.