Immaginiamo un pezzo di danza, o qualsiasi altra proposta performativa, come un'esposizione incorniciata dentro un contenitore riconoscibile. Poco importa se i contorni di questo frame mutano, siano essi declinati in un boccascena di un teatro all'italiana o in una sorta di piscina di cemento con il pubblico che osserva dall'interno il movimento dei corpi. Fra chi agisce e chi guarda, è discorso noto, ogni qualvolta ci si trovi in una situazione di rappresentazione organizzata si stabilisce un patto di visione, utile a stabilire i margini del frame di riferimento. Qualunque sia il linguaggio messo in campo, dunque, dalla musica alla danza dal teatro alla performance, non si dà spettacolo che non imponga questa sorta di patto tacito tra spettatore e performer. Un atteggiamento molto in voga al giorno d'oggi, al contrario, sembra irridere questo accordo non detto, ponendo l'artista in una posizione di superiorità intellettuale nei confronti di chi guarda: si potrebbero qui citare numerosi spettacoli definiti "transdisciplinari" che finiscono in molti casi per essere operazioni in cui a emergere è un mero atteggiamento post-concettuale dell'artista che crea: quello che conta è l'operazione di pensiero sull'arte, non tanto quello che si vede. Notiamo spesso lavori che fanno ampio uso di video, riprese live, musica dal vivo, recitazione o danza, tenuti insieme solo dal pensiero di fondo dell'artista. Quasi che il regista o il coreografo di turno, impossibilitato a proporre, resti ancorato a un filone di autoriflessione in cui l'arte pensa l'arte e non più il mondo. Filone che nel 2007 non può che essere inesorabilmente post-, essendo stato inaugurato perlomeno a partire dal famoso "atto" di Duchamp. Quel patto di cui prima non può che rinnovarsi spettacolo dopo spettacolo, se non vogliamo accettare di sciogliere la rappresentazione nel fluire della vita. Nei lavori a cui ci riferiamo, invece, l'operazione di pensiero vorrebbe celare una tensione ad abbandonare la rappresentazione e a negare quel patto, tensione mai accolta fino in fondo dato che siamo ancora consumatori che comprano un prodotto, lo spettacolo. Il patto viene dunque anche in questi casi rinnovato, ma nel momento esatto in cui se ne dichiara la superlfluità: è qui che si produce quello che potremmo definire l'equivoco del contemporaneo, un fraintendimento che delimita ormai un nuovo genere diffuso in contesti plurimi.
Per lo meno curioso, dunque, che a Lavori in pelle ci sia poca traccia di quest'ombra torbida del contemporaneo: dal lavoro astratto e quasi di puro movimento di Francesca Burzacchini ai racconti da giocoleria di Glenda Giacco l'assunzione di un preciso framing di relazione con chi guarda ci sembra un dato comune, assunto senza il timore di non apparire al passo coi tempi. Ecco l'ultimo quesito: se qui ad Alfonsine si sonda il prima dell'emergente, e se questo utilizza codici linguaggi e frame senza l'ansia di una obbligata problematizzazione, non dovremmo forse pensare al contemporaneo come un concetto aperto, proliferante, impossibile da definire se non lungo il contorno delle molteplici poetiche personali?