SANTARCANGELO > Gineceo d'oltralpe, sguardo sul femminile contemporaneo
Santarcangelo international festival of the arts nasce nel 2006 con passaporto straniero, e l’accento francofono degli artisti ospiti non lascia dubbi sulla paternità. La direzione artistica di Olivier Bouin guarda con fiducia alla Francia, universo artistico coerente per creatività con un sistema di riferimento locale solido e organico, ben diverso da quello che faticosamente nutre le leve italiane delle arti contemporanee. Al punto che il “contemporaneo” in questione tende ad alcuni caratteri genetici ormai assimilabili a una “specie” connotata artisticamente, o forse, più semplicemente, al definirsi progressivo di un genere, che oltralpe trova terreno fertile per proliferare.
Capita quindi a Santarcangelo, per anni terra consacrata alla Romagna Felix, non senza polemiche, di dedicare una serata ad artisti stranieri in cui pare manifestarsi una prospettiva affine, seppur con evidente affezione ciascuno per la propria peculiare anomalia creativa. La chiave di lettura è interdisciplinare per artisti indisciplinati, a ribadire il crollo del muro che separava i generi dello spettacolo, ormai sempre più prossimi, nel lambire costantemente il significato liquido dell’ineffabile termine ‘performance’, che fortunosamente resta un affascinate e inaffondabile significante. Nelle ultime serate di festival, un ritorno e un debutto: Edit Kaldor, già nel 2003 al festival con Or press Escape, e Christophe Fiat, attesa rockstar della scena.
Imprescindibile, uno schermo. Digital media, e una feroce solidarietà con la superficie degli eventi, lo sguardo perenne al pelo dell’acqua, nell’affogare dei tempi moderni. Eppure, se alcuni spettacoli sembrano mantenere sempre un respiro di indifferente superficialità, a tratti lo spettatore può affondare a piombo nell’invisibile terza dimensione del senso, oltre la patina di una scena sempre misurata in un minimal chic à la page. Con Point Blank Edit Kaldor, ungherese apolide, conferma l’ormai avvenuta mutazione dell’umano nell’ibrido digitale, con un laptop che in punta di dita è contatto vitale con il mondo esterno. In Or press Escape la performance era dal vivo, ma nella virtualità di una chatroom di inconsapevoli protagonisti, mentre il computer dava stizzito inquietanti segnali di vitalità ("Are you sure you want to delete these items?"). In Point Blank è invece di scena l’inquietudine di una diciannovenne alla spasmodica ricerca di se stessa, nel riorganizzare, complice la Kaldor e la sua inseparabile Ram, un numero infinito di scatti in digitale sottratti con occhio indiscreto alla realtà materiale, nella remota speranza di riscontrarne virtualmente un ordine che segni il cammino per la sua scelta di vita. Migliaia di schegge di istanti, tremendamente esplosi nell’occhio di un’adolescente gelata nella vertigine della libertà. Sullo schermo un diagramma di categorie dell’umano vivere e sentire si modellano secondo il racconto della pallida Nada, che proprio non sa scegliere fra la vita da impiegata o un clochard, fra la solitudine domestica o la presenza di un gatto in cucina. Il tutto in un dialogo interattivo con il pubblico, ma su testo recitato in estrema frontalità. Fa quasi tenerezza, ma forse ancor più fastidio, che la protagonista getti in pasto così candidamente il proprio dubbio esistenziale, così lievemente adagiato in una teoria piacevolmente inutile. Ma non manca una nota atroce, quel disprezzo per la carnalità del caos, così avidamente sublimato nei cristalli liquidi. E quell’ostinazione violenta di una mente acerba, nel voler piegare la realtà esterna alla propria visione.Digitale e a posteriori, oltretutto.
L’ambiguo potere dell’adolescenza al femminile è anche il tarlo nero delle lyrics di Christophe Fiat, che della rockstar ha le movenze, le note elettriche di una chitarra e la postura sghemba di un peso corporeo tutto in materia grigia. Lo scrittore francese non sopporta il confine del foglio, e la performance è l’esito naturale di un testo composto per una lettura a voce acuta. Il titolo del tema: Si Carrie White n’était pas une héroïne de Stephen King, elle serait terroriste. Un’omelia in morte di Carrie, che riposa in pace oltre lo schermo, lapide per il suo nome in primo piano, su fari in corsa lungo l’asfalto un’infinita higway. In una tesi di estrema lucidità, con toni a metà fra il relatore e il profeta, Fiat disegna l’ombra nera dell’eroina horror di Stephen King sui profili di tutte le adolescenti che nascondono dietro l’apparecchio per i denti il potenziale mortifero di una pubertà arcana, il crudo mistero del sangue e l’imprevedibile innesco di violenza e minaccia che si annida nel segreto del sesso debole, e nelle piaghe dell’abuso, del terrore, del terrorismo. Veleno puro insomma, come quello che scorre in molta attualità, e in piena superficie. Acuto, sferzante, originale, modaiolo e impegnato. Ma resta l’amaro in bocca, e non è solo per la schitarrata di fiele con cui Fiat segna il ritornello della sua ballata, ma forse nell’eccesso di carico per un genere “contemporaneo” che mira costantemente alla corteggia cerebrale, al pensiero razionale, alla citazione postmoderna che solletichi l’attenzione intellettuale. Performance che pretendono di toccare la realtà e manipolarla in un messaggio coerente, ma che rispetto a essa segnano una distanza di linguaggio frigida e sprezzante, che sembra invitare lo spettatore a un piacere solitario di decodificazione. Eppure le arti possono pulsare di vita propria, ed esempi di visioni potenti non mancano.“Performance” è forse una parola spesso troppo esposta alla vertigine. Nota malattia mortale.
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