Dino Sommadossi e Barbara Boninsegna ci avvisano che dieci giorni di festival li hanno resi allo stremo delle forze, e diversamente non potrebbe essere data la mole di lavoro che richiede un festival come Drodesera. Eppure, di fronte al «primo caffè del primo giorno di post-festival», non si sottraggono alle nostre questioni. Si parla della missione di uno fra i festival più noti sul territorio nazionale, e si parla di residenze, questione centrale che Altre Velocità continuerà ad indagare anche in occasioni future.
A proposito dei festival di teatro, si usano spesso etichette come contemporaneità, moltiplicazione di linguaggi, transdisciplinarietà. Ora che Drodesera è finito, vorrei chiedervi proprio questo: quale deve essere lo sguardo di un festival sulle arti sceniche contemporanee? Cosa guarda il festival di Dro?
Barbara Boninsegna - Siamo partiti con un progetto iniziale, che abbiamo visto concretizzarsi alla fine del festival: l'intento è quello di sostenere alcune giovani compagnie prima di tutto attraverso le residenze, e garantire loro una certa visibilità inserendole nel programma di Drodesera. Non a caso il festival si è aperto e chiuso con due importanti presenze della scena internazionale, come Rodrigo García e Romeo Castellucci. Insieme a questi nomi affermati ci sono le compagnie emergenti, che quindi possono fare i conti con un pubblico allargato.
Dino Sommadossi - In questo momento, in Italia, mi sembra di notare uno sforzo generalizzato a sostegno dei giovani artisti, ma sono poche le dinamiche serie che si instaurano. Spesso l'etichetta “giovane” è semplicemente sinonimo di prodotti a basso budget, a questa logica noi vorremmo sottrarci. Se si decide di sostenere la giovane creatività bisogna assumersi in pieno la responsabilità di questa scelta: fornire ai gruppi spazi, tempi, sostegno tecnico, risorse e soprattutto attenzione e cura. Altrimenti diventa solo un marchio di facciata per dimostrarsi attenti al rinnovamento, mentre nella realtà la cura è poca, e il sostegno di mezzi e risorse rimane quasi nullo. Ci sono anche altre possibilità, ovviamente, come fare un festival vetrina che punta sui grandi nomi e sulle novità internazionali. Noi facciamo altro, e da quando lavoriamo alla centrale Fies la storia del festival è cambiata. Per noi è importante scommettere su alcuni gruppi, con i quali c'è una condivisione d'intenti che va al di là dei singoli spettacoli.
Quindi il progetto del festival non potrebbe fare a meno dello spazio di residenza...
B.B. - È così. Bisogna però distinguere fra Drodesera, che è il festival, e la centrale Fies, che è un luogo di residenza e di produzione Le compagnie ospitate alla centrale devono avere la possibilità di sbagliare, e anche di sperimentare nel vero senso della parola. Se ci definiamo un festival di ricerca credo che sia nostro compito mettere le compagnie nelle condizioni di ricercare realmente, e se lo decideremo insieme anche di confrontarsi con il pubblico. Ci teniamo a sottolineare che chi viene qui in residenza non è obbligato a mostrare un esito finale. Le compagnie non devono sentirsi pressate. Quando il lavoro è finito non c'interessa che vi sia una prima obbligatoria da noi. Per esempio Sonia Brunelli, solo per fare un nome, ha lavorato in residenza da noi, ha debuttato con i nostri materiali elettrici e con il nostro tappeto ma la prima non è avvenuta qui.
Quello che state dicendo mi fa pensare a una questione che ritengo centrale nella discussione odierna attorno al teatro emergente. Cominciano a non essere poche, infatti, le occasioni in cui un giovane artista trova il contesto per periodi più o meno lunghi di residenza. Quello che sembra mancare, invece, è l'anello successivo, dal momento che il sistema così come è concepito non assicura una reale circuitazione. Si rischia quindi di giungere al paradosso di compagnie che ottengono anche svariate residenze per mettere a punto il lavoro ma trovano invece poche occasioni per mostrarlo. Cosa ne pensate?
B.B. - É vero, si tratta di una passaggio che in Italia manca. Ti posso dire che rientra nei nostri progetti la sperimentazione di un modello che includa anche la fase di distribuzione: lavorare con un compagnia dovrebbe così significare fornire gli spazi, i mezzi per la produzione e il sostegno per la distribuzione sul territorio nazionale e su quello estero. Si tratta di un intento, una sorta di punto di arrivo che ci siamo dati. Per ora siamo ancora in fase progettuale, stiamo anche dialogando molto con l'Eti. Vedremo come vanno le cose. Un possibile esperimento potrebbe avvicinarsi alla “Margherita Productions” in Belgio: raccogliere un gruppo di giovani compagnie e provare a distribuirle insieme. Spostarsi nei festival e fare vedere materiali video e cartacei. É necessario che gli operatori che ci sono in giro vedano questi spettacoli, bisogna cominciare da qui.
Dro mi sembra essere uno dei rarissimi festival che continua a fare un discorso serio sui Teatri '90... dai debutti dell'anno scorso di Fanny e Motus, alla personale del Teatrino di quest'anno..
B.B. - Ci accusano spesso di portare al festival sempre gli stessi nomi. Questo, secondo noi, testimonia invece a nostro favore. Non ci piace “l'usa e getta”, ci sembra che l'unica politica sensata passi per un accompagnamento pluriennale, slegato dalla logica della prima a tutti i costi. In questo rientra quello che dici sui Teatri '90. Ossigeno, per esempio, ha trovato per la prima volta dopo un anno di repliche le condizioni ottimali immaginate dal regista Pietro Babina: un luogo piccolo con una sorta di bar per ricreare l'atmosfera di una discoteca. Il Clandestino ha avuto l'opportunità di mostrare installazioni e performance per tutto il festival, è stato un modo per permettere allo spettatore di relazionarsi a una proposta articolata, che superasse la classica fruizione di un singolo spettacolo. La stessa cosa l'abbiamo fatta con il Teatro Valdoca gli scorsi anni. Per tre anni abbiamo sostenuto la trilogia, opera per me meravigliosa e in un qualche modo respinta più che altro dal sistema e dagli operatori.
D.S. - Questo è uno dei problemi cruciali del sistema attuale. Se qualcuno ha deciso che un lavoro non funziona, questo viene messo ai margini. Spesso ci si dimentica che ci sono compagnie che hanno fatto la storia recente del teatro italiano, e che continuano a portare avanti un pensiero e un linguaggio rigorosi. Basta pensare che le poche volte che alcuni di questi lavori hanno l'opportunità di mostrarsi a un pubblico le reazioni sono entusiaste. Chi ha in mano il denaro pubblico dovrebbe tenere presente che molte di queste compagnie non hanno l'adeguata visibilità, e non solo pensare a riempire le sale con gli assessori che sorridono. Bisogna che gli operatori tornino a rischiare.
Mi accennate al progetto di rete con CanGo e Uovo?
B.B. - Si tratta prima di tutto di un impegno di collaborazione informale, per individuare alcuni artisti da seguire ognuno con i suoi mezzi. Noi a Dro possiamo ospitare e sostenere in parte la produzione, Virgilio Sieni può ospitare e fornire il suo accompagnamento e la sua sapienza da coreografo, Umberto Angelini può mettere gli artisti a confronto con il grande pubblico di Milano. Quest'anno gli artisti seguiti dal network sono stati tutti presentati a Dro, ma non si tratta di un obbligo. Per ora mi piace pensare al progetto come a una collaborazione fra strutture che condividono un'attitudine professionale.