Nel percorso di uno spettatore, di ogni spettatore, ci sono momenti particolari. Spesso mi capita di ripensare alla “prima volta”, al primo spettacolo che ricordo, non tanto in ordine di tempo ma perché è stata la prima volta in cui ho subito l’incanto e la fascinazione del teatro, e ho davvero incontrato quel mondo misterioso, là, sul palcoscenico, così prossimo e così lontano dal nostro quotidiano “stare seduti in platea”. Lì c’era lo stordimento del non conosciuto, la sorpresa di un linguaggio che ci coglie impreparati, e che travolge con violenza, come una vampata. Forse il percorso di uno spettatore si può risolvere nella ricerca di questi spaesamenti, e nel ritorno periodico di altre “prime volte”. Essere spettatori, in definitiva, non è altro che una mappa in divenire che ripercorre tutte le nostre visioni passate, e che acquista valore solo negli incroci in cui ci siamo sentiti smarriti, disorientati, non a casa nostra.
Mi sembra che A memoria dunque, a memoria ci siamo tutti del Teatro Valdoca abbia a che fare con questi pensieri. Riparto dunque da alcune prime volte legate a lavori del gruppo di Cesena.
In scena c’era un uomo dipinto di bianco, con un naso da Pinocchio. Cercava qualcosa, alle sue spalle piccoli assembramenti di due o tre persone, che si attorcigliavano mimando amplessi. Parsifal (1999) diceva di non sapere, e chiedeva perdono per quel poco che sapeva. Chioma (2000) invece era sola in scena, con una voce profonda e indescrivibile, e sola diceva che «la parola amore è uno straccio lurido». Altrove c’era la natura che rinnegava noi esseri umani, insieme a tre ginnaste (o uccellini) che saltavano e volavano sulla scena, e la scena non era più una semplice scena, il teatro non un teatro, e noi spettatori non più seduti ad osservare, ma con le acrobate a volteggiare per aria (Predica ai Pesci, 2001). Infine c’erano gli animali/uomini della trilogia Paesaggio con fratello rotto (2005), uccisi dalla figura del “macellaio”, e il richiamo all’amore, il votarsi all’amore come solo possibile destino.
Queste visioni mi scorrevano di fronte e non ero in grado di riconoscerle, non avevo una lingua per descriverle, non ero capace di sistemarle in un posto sicuro. Intanto leggevo altri versi di Mariangela Gualtieri, ripensavo alla parola amore e al non avere parole, «mai abbastanza parole».
Quello che posso fare in più, ora, è risalire a questi stordimenti, tentare di contarli. Ripensarli per capire quando si sono verificati. Ma non posso proprio dire cosa succeda quando si producono, non posso analizzarne le componenti tecnico-formali. So solo che questi lavori della Valdoca li hanno innescati, facendoli divenire alcuni dei punti di maggiore spaesamento della mia personale mappa di spettatore.
Trovo che sia molto difficile pensare a una declinazione non consumata della parola famiglia. Nel nostro tempo, troppo spesso si avvicina all’idea di “casta”, gruppo chiuso al quale si accede tramite vari tipi di “tessere” d’adesione. In che modo possiamo ancora parlare di famiglia? Come depurare questa parola da tutti i significati secondari che la infestano?
Mariangela Gualtieri: Sul termine “famiglia”: mi pare di averlo usato proprio per dire che non ci sentiamo una famiglia ma piuttosto una banda, un’impresa, prendendo questa parola nel suo significato più avventuroso e non certo aziendale. I termini banda e impresa rimandano subito all’adolescenza, a quella forza solidale che tiene insieme i compagni, a quell’essersi scelti, all’avere qualcuno o qualcosa contro cui battersi, all’avere riti comuni che potenziano ciascuno, all’avere una spartana franchezza, fino all’allontanamento di coloro che rompono il patto di lealtà e in qualche modo di dono di sé perseguito dal gruppo. Noi sentiamo i nostri maestri come coetanei che ci hanno preceduti, bloccati in una adolescenza che non viene bruciata neppure dall’età adulta, ma permane identica. Dante o la Rosselli, Dino Campana o Milo de Angelis, per citarne solo alcuni, stanno nel nostro cuore come compagni di banda, non come nostra famiglia.
Anche il termine comunità ci piace. Il termine famiglia ci piace meno perché non contempla quell’essersi scelti e neppure la possibilità di romper il patto quando vengono meno le condizioni per cui ci si è riconosciuti e amati.
Mi sembra che il Teatro Valdoca, negli ultimi anni, stia riflettendo in maniera radicale su un nodo legato alla questione della famiglia, che è quello dell’eredità (artistica, culturale, etica). L’Officina Valdoca produce spettacoli, festival, rassegne che recano un forte segno dei “padri”, eppure rivendicano e mostrano anche una sostanziale autonomia. Leggendo i vostri scritti, si avverte una vocazione forte verso la “comunità”, affiancata però sempre dallo “spirito eroico” (sono vostre parole) e dunque individuale delle persone e degli attori che avete incontrato. Una “comunità di eroi”: è questa forse la possibile strada per pensare al concetto di eredità?
M.G: Io credo che a noi non sembri di lasciare una eredità. Ciò dipende anche dal nostro profondo e costituzionale antistoricismo, dalla nostra idiosincrasia per qualunque potere, anche nostro. Il teatro è stato per noi una grande scuola dell’adesso (parola fra le più belle), mentre l’eredità è fortemente dentro lo scorrere del tempo, segna una fine ed un inizio, una morte ed una nascita, e anche un “capitale” che ha tutta l’aria di avere una consistenza solida e duratura. Ciò che noi lasciamo credo avvenga per contagio, per combustione, per passione, e non sia, nella sostanza, qualcosa di immagazzinabile. Credo che i maestri rendano chiaro a noi stessi ciò che già sapevamo. Forse è questo che facciamo con chi viene dopo di noi, o almeno me lo auguro.
Il teatro è una meravigliosa esperienza comunitaria. Si può fare finta di scritturare qualcuno ed essere il grande regista, il grande artefice, l’eccelso drammaturgo, ma senza il cuore appassionato e rovente di tutti coloro che partecipano, tecnici compresi, non si crea quel capogiro di forze che arriva alle parti più profonde dello spettatore. Sì, si può fare un bello spettacolo, ma per me il teatro è una esperienza del sacro… la società dello spettacolo mi interessa molto poco.
I giovani dell’Officina sono per me anche molto misteriosi. Quest’ultimo lavoro di Vincenzo Schino è fra le esperienze più intense che io ho avuto nella mia vita di spettatrice: ha mosso in me un terrore e uno stupore d’infanzia, una percezione del tremendo e del meraviglioso, un entusiasmo percettivo…questo mi segnala che c’è una affinità nel sentire l’arte, la scrittura scenica. Ma il segno di quel lavoro non ha debiti rispetto a Valdoca, e io sento in Vincenzo il segno di un maestro, anche intendo di un mio maestro. (Nella banda, a differenza della famiglia, l’autorevolezza è slegata dall’anzianità).
Sì, noi lasciamo loro una piccola bolla di terra coltivabile, fra la roccia del mondo e il mare sempre più accerchiante della attuale volgarità. Lasciamo gli attrezzi del mestiere. Colgo in alcuni di loro una qualità artistica ed umana che me li fa sentire compagni. Ciò che loro continuano non è il segno artistico/poetico nostro, ma un modo di essere dentro il proprio fare, un modo di essere dentro il teatro, e nel mondo, che forse somiglia al nostro. E questo non per scelta perseguita, ma per un essere fatti così, per via della legge interna di ciascuno, quella che così misteriosamente si intreccia col carattere, col destino.
La parola eroico che forse abbiamo usato, è certo riferita alla battaglia di ognuno con se stesso. In teatro questa battaglia è stata per me sempre al centro.
Mi sembra centrale, nel vostro percorso, il valore che date alle opere. Dagli sforzi recenti più imponenti come la Trilogia (Paesaggio con fratello rotto, coprodotto e ospitato da Drodesera, ndr), ai formati più “leggeri” come i concerti, sembra palesarsi sottotraccia una credenza profonda nel valore dell’opera d’arte, e nella sua possibilità di offrirsi ai “mondi” dello spettatore, di qualunque natura essi siano, avvezzi o meno alla vostra poetica, al teatro, all’arte. Partendo da questa piccola considerazione, come si colloca A memoria dunque, a memoria ci siamo tutti che vedremo qui a Dro? Di quale memoria si tratta?
M.G: L’opera è sempre stata l’assillo, la meta, l’offerta, il dono, il combattimento, l’avventura, il sogno, la tempesta e la riva nella quale abbiamo messo tutti noi stessi. Ma come potrebbe essere altrimenti?
A memoria dunque…avrà le caratteristiche di un evento speciale. Sarà fatto cioè con la tecnica dell’affresco, poche pennellate veloci, prima che la pittura asciughi. Il titolo è da un verso di Milo De Angelis ed è sulla scia di un nostro avvertire un punto di svolta, o forse essere in un punto cospicuo della nostra mappa artistica ed avere bisogno di dare un’occhiata larga, guardare chi abbiamo intorno, accanto e anche un poco più in là. Ci sarebbe piaciuto avere con noi tutti gli attori di questi ultimi anni, ma per vari motivi alcuni mancheranno.
Dopo venticinque anni di lavoro e vita nel teatro, cosa si cerca nel teatro?
M.G: Venticinque anni sono «un lampo del cuore fra battito e battito, un niente appiccicato a un niente, un finto baratro di ore...» Abbiamo perso peso e paure. Siamo pronti per nuovi amori, per una nuova avventura…
Si ringrazia Roberta Magnani di Teatro e Officina Valdoca