Lei fa parte ormai dal 1989 della giuria del Premio Riccione. Cosa può dire da regista sulla drammaturgia italiana recente, considerata da questo speciale osservatorio?
Arrivano talmente tanti copioni che è un osservatorio solo apparentemente molto vasto. Nel senso che la maggior parte dei testi sono velleitari o non riusciti, tanto da non poterli considerare significativi della “drammaturgia italiana”. Si possono comunque individuare delle tendenze: sempre di più sembra che il teatro conosciuto sia quello di derivazione televisiva o di derivazione dalle sceneggiature cinematografiche, per scrittura e argomenti trattati. Si sente molto l’imitazione di modelli stranieri, anglosassoni in particolare, un po’ come cinquant’anni fa ci si ispirava ai francesi. Questo vuol dire che si prende a modello un’altra società…
E la cosa più singolare, come osservazione critica che si può fare, è che laddove la drammaturgia anglosassone è fortemente legata a quelle società, da questi testi che la imitano la società italiana non si capisce.
Non si possono individuare tendenze più vicine alla nostra realtà,?
Dalla maggior parte dei testi sembra che la vera società italiana sia esclusivamente la famiglia, e questa è una cosa strana. Mette in discussione l’idea più vasta di società. Dei due testi premiati quest’anno, inoltre, uno, Nzularchia, è scritto in dialetto da un attore professionista, l’altro, L’odore assordante del bianco, è scritto in italiano ugualmente da un attore professionista. E questo fatto rivela, a mio avviso, un altro tema su cui riflettere. La drammaturgia tradizionale era scritta da letterati o da gente di palcoscenico: ora il letterato si disinteressa della scrittura per il teatro e viceversa l’attore o il regista viene in primo piano, scrivendosi addosso qualcosa di utilizzabile.
Che cosa chiederebbe lei, come regista, a chi scrive teatro?
Io ritengo esistano nei nostri anni, nei nostri decenni, temi, spunti al di fuori delle tematiche private – chi sono, che cosa ci faccio qui, quali sono le mie relazioni intime – che spesso non trovano adeguata rispondenza in una scrittura scenica. Siamo di fronte, per lo più e nei casi migliori, a derive ioneschiane, beckettiane, genettiane: e quelli, per carità, sono grandi autori; ma qui siamo di fronte a epigoni.
D’altra parte se molti sono i copioni e molti pure i premi e i testi premiati, pochi di essi arrivano sulla scena. Come mai?
Non credo che sia vero che solo pochi copioni arrivano sulal scena; piuttosto molti di essi giungono a essere rappresentati in condizioni che non si impongono all’attenzione. La maggior parte, scritti da attori o registi, vengono concepiti per essere messi in scena, ma alle condizioni miserabili che il nostro teatro offre. Mi sembra che sfidino poco il sistema. Anche nei testi scritti da attori e registi c’è una grande acquiescenza allo stato di cose esistente. Sembra che non pensino mai all’imprevisto, a ciò che un pubblico può vedere in quei testi, ma che apprestino mezzi per le proprie possibilità espressive, interpretative, e in tal senso li limitano. Vera qualità di un testo, invece, sta nelle eco che può suscitare nella coscienza dello spettatore.