Maria Grazia Gregori, firma de L’Unità e studiosa di teatro, è una preziosa memoria storica del Premio Riccione, membro della giuria da numerose edizioni. Se dovesse tracciare un bilancio dei percorsi della drammaturgia contemporanea da una prospettiva privilegiata come la vetrina di Riccione?
Dovrei dire soprattutto che è rilevante la diminuzione esponenziale dell’età dei partecipanti rispetto all’aumento esponenziale delle opere presentate al premio. Mi sembra un buon risultato, perché un premio per vivere ha bisogno di forze sempre rinnovate. E soprattutto la cosa più importante è il mutamento dello sguardo. Se prima trionfava la cosiddetta drammaturgia “del tinello”, cioè vicende che coinvolgono tre, quattro personaggi all’interno di una casa, vicende private, quotidiane, ma di un quotidiano poco interessante, oggi il quotidiano si trasforma in un’acquisizione e in una conoscenza del malessere della società che ci circonda, importante non solo per il teatro ma anche per conoscere la società e la vita, così com’è.
Si può quindi registrare il dato generazionale, come è esplicitamente segnalato con il Premio Tondelli riservato a autori under trenta. Pensa che questi autori dal punto di vista del linguaggio e dei temi trattati stiano avviando una nuova stagione della drammaturgia?
Pensare che avviino un percorso nuovo è forse eccessivo, ma senza dubbio dal Premio Tondelli sono usciti autori che hanno fatto opinione nell’ambito della drammaturgia italiana degli ultimi anni, una drammaturgia poco sostenuta, che non riscuote lo stesso interesse che per esempio incontra la nuova drammaturgia in Inghilterra o in Germania e in Francia. Parliamo della nuova drammaturgia in un paese economicamente e culturalmente depresso, e quindi è tanto più importante rilevarne e conoscere i nuovi fermenti. A me pare che il Premio Tondelli abbia reso onore al suo genius loci, vale a dire un autore che ha sempre portato avanti una politica rivolta agli scrittori giovani. Il premio ha tenuto fede alla sua denominazione e ha presentato e lanciato autori notevoli.
Dal punto di vista del panorama attuale della drammaturgia quali sembrano essere i temi e le forme più frequenti? In questo senso il dialetto sembra godere di una costante vitalità …
Il dialetto per questa drammaturgia è da intendersi come una lingua. Ad esempio il testo del vincitore di quest’anno, ‘Nzularchia di Mimmo Borrelli, è scritto in apparenza in dialetto, ma in realtà è una lingua molto colta, che mescola diverse suggestioni. La drammaturgia che attinge al dialetto affonda le proprie radici in una cultura popolare, magari per mitizzarla, oppure, se vogliamo, per barocchizzarla. Senza dubbio in questo la funzione del dialetto è forte, soprattutto nell’ambito meridionale, perché le opere più importanti che hanno vinto il premio in questi anni, se dovessi guardarle dal punto di vista della lingua, e allora non dovrei dire banalmente ‘dialetto’ ma piuttosto parlare di una lingua sperimentale che tiene conto del dialetto, nascono soprattutto da Napoli in giù, con un’eccezione per Ascanio Celestini, romano.
Al contrario, la drammaturgia ‘nordica’ è spesso di lingua italiana, dove l’introduzione e l’uso di un parlato quotidiano rimandano allo slang giovanile, che è il nostro linguaggio di oggi, paramericano, e questa è una differenza da sottolineare.