Happy family è il tuo primo testo teatrale?
Sì, è la prima volta, anche se è da anni che faccio l'attore. Non ho fatto una scuola "ufficiale", ma ho iniziato più o meno da subito a lavorare con la compagnia Egumteatro. Poi, dopo una serie di altre esperienze, sono entrato a lavorare al Teatro dell'Elfo e ormai sono passati già cinque anni. Ma collaboro con chiunque mi chiami.
Da cosa è nata allora l’esigenza di scrivere un testo?
Non è stata una vera "esigenza". Erano tre anni che per voglia di fare e per necessità di soldi ho lavorato come un pazzo, senza fermarmi mai. Facevo qualunque cosa mi venisse chiesto, tolta l’animazione per i villaggi turistici. Lavorando tantissimo alla fine sono arrivato a un punto di saturazione e a maggio dell’anno scorso ho deciso di fermarmi, di riposare un po', di leggere. Le prime due settimane sono state fantastiche, pulivo la casa, cucinavo, facevo la spesa e leggevo. Dopo due settimane sono andato fuori di testa, nel senso che se non fai niente non sei "niente" e in più ti tornano in mente tutte le cose che hai tenuto schiacciato per anni proprio perché non pensavi. Avevo un problema fisico, di energia da sfogare per cui facevo chilometri in bicicletta e intanto pensavo. E poi ho iniziato a scrivere e in un mese ho finito Happy family. La mattino andavo in bici, il pomeriggio scrivevo, e la sera andavo di nuovo in bici e pensavo. E' stato un periodo bellissimo. La crisi ha prodotto questo testo e un anno dopo sono qui, al premio Riccione e sono davvero molto contento.
Quando scrivevi pensavi a una rappresentazione tua, come attore?
No. Ho iniziato a scrivere senza sapere se sarebbe stato un testo teatrale, un romanzo o una sceneggiatura per un film. Quello che mi interessava era che chiunque lo leggesse provasse piacere. Che fosse stimolato ad andare avanti fino alla fine, divertendosi, immedesimandosi nei personaggi. Sono entrato in un mondo "a parte", estraniandomi dalla realtà.
Tu hai un'importante esperienza di teatro, eppure il testo è molto vicino al romanzo. I pensieri dei personaggi, le aspettative, i commenti, sono tutte cose molto letterarie. Come è scattato tutto questo?
La storia di Happy family è molto semplice: inizio, sviluppo e fine. Le porte che hai aperto alla fine si chiudono. Ma non era tanto la struttura che mi interessava quanto lo "stile". Credo che sia un testo a metà tra il teatro, la sceneggiatura, il romanzo. Chi lo metterà in scena deciderà quale registro privilegiare. Ci sono tante letture possibili, tanti pensieri che possono essere usati e rappresentati in modi molto diversi. La drammaturgia contemporanea che amo di più è quella che ti lascia aperte mille strade possibili.
Hai guardato di più alla drammaturgia o alla narrativa contemporanea?
Leggo tantissimo, sempre. Leggo romanzi e la narrativa mi piace molto. Ma credo soprattutto in quelle opere che riescono a mescolare, i compartimenti stagni anche in questo caso sono terribili. Come si fa a dividere per esempio il teatro in generi o suddividere in modo netto la danza, il teatro-danza... questo non vuol dire fare per forza un "minestrone" anche se il minestrone se è fatto bene, è buono. E' uno dei miei piatti preferiti!
Questo testo ha una dote rara: pur essendo una commedia con l'happy end, non è mai consolatoria. Riesce con una punta di cinismo a descrivere un quotidiano desolante eppure ancora vitale. Come è nato tutto questo?
Era un periodo in cui stavo malissimo, avevo attacchi di panico. Al pronto soccorso mi conoscevano tutti. Però nelle crisi riesco ad avere sempre una parte ironica e vedere le cose da fuori mi fa sempre molto ridere. È il mio carattere, se hai la distanza giusta da tutto quello che succede, puoi ridere. Non si tratta di soap-opera, ma è un constatare le cose...
Però tu giochi con questo genere…
Si perché la soap-opera ha dei principi interessantissimi. E' un melodramma, in cui ogni tot minuti succede qualcosa. Pensa alla forza che ha, quanta gente nel mondo rimane incollato agli schermi.
Qual è il teatro che segui? Con quali compagnie questo testo potrebbe funzionare?
A teatro vado a vedere cose specifiche che mi interessano e ovviamente i miei amici. Non so cosa risponderti, ieri ho sentito per la prima volta che il testo "suonava", la gente rideva. Appena i ragazzi hanno preso in mano il mio testo si è creato subito un clima di leggerezza, di "svacco", qualcosa stava succedendo. È questo il teatro che mi interessa. Il dubbio che avevo era che fosse veramente una "vaccata", invece una sua piccola dignità ce l’ha nonostante faccia ridere...
Racconti di un’umanità un po’sfigata, di gente che cerca di cavarsela e vede le cose nella loro bieca banalità…
Perché i luoghi comuni e le banalità sono cose vere, conosciute da tutti, per questo diventano banalità, ma sono vere!
Ma oltre a quest’aspetto di realismo, osservato con cinismo e ironia, c’è anche la storia di un "io" autore nel testo. Una parte meta-narrativa e meta-tetrale. Da cosa nasce questo corto-circuito?
"Io" è l’unico personaggio reale. È esattamente quello che mi succedeva mentre scrivevo. Pensavo ai personaggi, li creavo e poi avevano e hanno una vita propria. E possono essere sia reali che il semplice frutto della mente dello scrittore. Ma, ripeto, le possibilità sono tante e in una messa in scena credo siano moltissimi i modi per trasmettere questa dinamica.
Secondo te quanto è importante la drammaturgia contemporanea oggi?
Penso ci sia un cambio generazionale forte e che esistano delle identità precise. La cultura italiana è diversa da quella tedesca e da quella inglese, ma trovo per me più interessante concentrarmi su ciò che accade in Italia. Non credo che la drammaturgia sia in crisi, ci sono molti autori in giro, credo che la difficoltà maggiore sia mettere in scena il testo.
Il tuo testo può essere letto senza problemi, è in qualche modo autonomo. La drammaturgia è invece molto legata alla scena, a volte è difficile da leggere...
Per me era importante che si potesse leggere come un romanzo, divertendosi e trovandoci magari cose interessanti. Era importante che avesse un proprio valore, indipendente.