Ottavia Piccolo, attrice ricordatissima per esperienze con Strehler, Visconti, Ronconi… sempre a confronto con grandi nomi della letteratura teatrale da Pirandello a Shakespeare ad Alfieri, si è confrontata ultimamente anche con autori contemporanei, ad esempio con Cavosi, passato dallo stesso Premio con Bellissima Maria, e interpreterai un testo dello stesso Stefano Massini, vincitore del Tondelli 2005. C’è sicuramente un rapporto diverso nell’interpretare un testo tradizionale e uno contemporaneo. Come è avvenuto questo avvicinamento?
Io ormai lavoro da moltissimi anni e ho attraversato una grande parte del teatro italiano con grande soddisfazione lavorando appunto, come ricordavi, con Strehler, Visconti, Castri, Lavia, ‘nsomma co’ tutti!, facendo quasi sempre testi diciamo “classici”. Quindi nel binomio attore più regista, in particolare con una personalità forte, l’apporto dell’attore è sempre più limitato, pur non essendomi mai sentita un oggetto nelle mani del regista: il mio lavoro era di interprete punto e basta. Poi mi sono guardata intorno e mi sono detta che per parlare a un pubblico diverso bisognava fare delle scelte diverse. E un po’ casualmente, un po’ cercando in giro, mi sono confrontata con altre esperienze di drammaturgia contemporanea sia italiana che straniera. Ovviamente questo ha comportato per me un impegno più forte perché la scelta ricadeva anche sul mio gusto, quindi la mia partecipazione era, ed è, più immediata. Per quanto riguarda la recitazione non lo so, io recito sempre nella stessa maniera credo: cerco di raccontare delle storie attraverso le parole degli altri. Certo: lo stile della scrittura e quindi dello spettacolo è di volta in volta diverso, ma io sinceramente non mi pongo di questi problemi.
Ti chiedevo questo perché vedendo in questi giorni il lavoro dei giovani attori delle scuole di teatro durante il workshop di Renata Molinari sui testi finalisti, si capiva che le difficoltà nei confronti della drammaturgia contemporanea erano soprattutto di natura interpretativa, magari proprio a causa di un approccio accademico, quando forse invece la cosa più importante è prima di tutto imparare a leggere.
Brava! Allora senti, non vorrei tediarti con l’ennesimo aneddoto come fanno un po’ troppo tutti gli attori, però questo mi sembra importante: un grande regista (mo’ come se chiama nun me ricordo…), raccontava che, mentre stava facendo l’ultimo suo film “Gente di Dublino”, una comparsa, che doveva dire solo una battuta, andò da lui a chiedergli “come la devo dire, cosa devo fare?” e lui le rispose “dica le parole”.
A volte a noi attori manca proprio questo, se diciamo le parole, il senso viene da sé! Certe volte rischiamo di caricare troppo le cose che facciamo e questo con la drammaturgia contemporanea, con autori che parlano come parliamo nella vita, è terribile perché si sovraccarica spesso il testo di sensi di cui non ha bisogno e vengono fuori degli ibridi strani per cui in scena vedi gente che parla in un modo che non userebbe mai nella vita.
A volte andando a teatro mi chiedo come potrebbe un ragazzo di 18 o 20 anni appassionarsi a quello che facciamo, e infatti i ragazzi non vanno a teatro, poi però scopri che vanno a vedere Peter Brook e dicono “ho visto Amleto, c’era uno che parlava come me”.
Credo che sia un po’ colpa anche del nostro teatro che ha costruito una specie di sovrastruttura per cui si parla in un modo diverso da quello della vita.
A proposito del “Premio Riccione”, per te è il primo anno che sei nella giuria però ti sei divorata un sacco di testi, quindi evidentemente hai una passione forte.
Una grande passione per forza, perché facendo questo mestiere e cercando sempre testi di autori viventi, leggo molto. Quindi ho chiesto io di essere una “grande lettrice” perché ero veramente curiosa, e ho trovato molti testi interessanti, non tutti perfetti non tutti da dire “domani andiamo in scena” e molti sui quali c’è ancora da lavorare, ma io sono abituata così: a prendere un testo e a rivederlo, magari con l’autore. Quindi molti testi che leggevo per questo premio li ho letti pensando che poi in fondo materiale c’era per lavorare, poi bisogna metterli a posto; lo si fa d’altra parte anche con Shakespeare e con Pirandello…
Poi c’è ovviamente un po’ d’inesperienza, c’è la tendenza a mettere tutto nella prima opera, di dire tutto insieme quello che si vuole dire, c’è la giusta e sana presunzione di un ragazzo che a 20 25 anni dice “io so come si fa”, ma è anche giusto che sia così.
Tu parli di giovani autori nonostante il “Premio Riccione” sia rivolto a tutti, senza limiti d’età. Però in effetti quest’anno i giovani hanno avuto un ruolo importante. Ho fatto un rapido calcolo e fra i 473 partecipanti solo il venti/venticinque percento erano sotto i trent’anni, anche se poi quasi il novanta percento dei testi arrivati in finale erano di giovanissimi.
Io credo che quelli meno giovani erano quelli più strutturati e quindi avevano meno novità, magari gente che sa scrivere che però è meno innocente. Non è che siamo stati noi a scegliere in base all’età.
Il fatto di avere una giuria così eterogenea - e infatti ci sono state delle belle discussioni e certi testi sono stati magari ripescati e riletti diverse volte - ha fatto sì che ognuno di noi guardasse con i suoi occhi e quindi le scelte sono state molto differenti. Quelli che sono arrivati in finale, i testi di cui abbiamo parlato, erano testi molto diversi l’uno dall’altro. Anche perché, io quando leggo un testo penso subito a come possa essere messo in scena, altri hanno guardato ad altro, al linguaggio per esempio oppure alla visionarietà o all’inventiva, alla fantasia… e questo è il bello di una giuria con una forte interdisciplinarietà come questa.
Però leggendo i testi, se non in alcuni casi, non è immediatamente coglibile che gli autori siano così giovani e trovo che questo sia positivo in quanto non si cede a un linguaggio troppo giovanilistico che oggi viene ostentato per una sorta di drammaturgia generazionalista.
Sono assolutamente d’accordo. Noi nella giuria non abbiamo guardato alla data di nascita nella scelta. Per me non c’è niente di peggio che correre dietro alla moda perché il linguaggio dei ventenni di oggi fra tre anni è superato. La cosa bella è che tutti i testi potrebbero essere stati scritti da persone di qualsiasi età e comunque la cosa non è importante, cioè leggendo Shakespeare o Marivaux pensi “che bello, mi riguarda, parla di me” non ti chiedi quanti anni avrà avuto quando l’ha scritta, ma che te frega!
L’ultima domanda, rapidissima. Sempre più attori oggi si interessano di drammaturgia. Una tendenza emergente ed evidentemente premiata (tra i vincitori di quest’anno non a caso figurano tre attori). Tu pensi di scrivere?
No, assolutamente! Non so scrivere manco le cartoline… Non ho nemmeno un computer! Io mi affido totalmente agli altri, anche perché è più facile, perché in fondo dire “questo non mi piace, cambialo, facciamolo così” è più creativo. Magari posso intervenire con un autore o con un regista apportando la mia esperienza, il mio modo di sentire, senza però prendermi la responsabilità della scrittura, cioè dando degli input ma trincerandomi dietro al “ahò, ‘ncentro niente l’ha scritto lui”. Però nelle ultime esperienze che ho fatto con Cavosi e altri autori viventi abbiamo lavorato a stretto contatto, con il regista sempre a far da tramite. Io penso che gli autori devono essere disposti a cambiare ma non rompere le scatole agli autori e ai registi che devono lavorare. Devono cioè avere fiducia nell’attore che interpreta e nel regista che mette in scena perché senno ‘nun se finisce più’ . In palcoscenico comandiamo noi.